24^ canto dell’Inferno.
La fenice.
Malebolge, l’ottavo cerchio dell’Inferno. Settima bolgia. Ancora a metà del canto, il poeta racconta che tra l’orrenda e tormentatrice moltitudine dei serpenti corrono dannati nudi e spaventati, senza sperare in un buco dove nascondersi o nella pietra elitropia: hanno le mani strette dietro con le serpi; quelle spingono lungo le reni la coda e il capo, e sono annodate sul davanti. Ed ecco che contro uno che è dalla parte di Dante e Virgilio, si lancia addosso un serpente che lo colpisce là dove il collo si congiunge alle spalle.
“Né O né I si scrissero mai così rapidamente”, prosegue il poeta, “come esso prese fuoco e bruciò, e avvenne che cadendo divenisse tutto cenere; e dopo che fu così annientato a terra, la cenere si addensò da sola e ridiventò di colpo lo stesso dannato. Così si asserisce dagli insigni sapienti che la fenice muore e poi risorge, ogni volta che viene vicino al cinquecentesimo anno; non si nutre nella sua vita di erba né di vegetali seminati dall’uomo, ma solo d’incenso e di amomo, e il nardo e la mirra sono le bende funebri”.
La fenice fu un uccello favoloso sacro agli antichi Egizi, e di esso ne parlarono in abbondanza letterati e astrologi. Erodoto la descrisse come una grande aquila, con le piume estremamente variopinte. Originaria dell’Etiopia, viveva almeno cinquecento anni, fino a quando, arrivata al termine della sua esistenza, si costruiva un nido per morirvi bruciata. Dalle ceneri, ne nasceva un’altra, che volava in Egitto, a Eliopoli, in cui era consacrata nel tempio del Sole, per tornare poi in Etiopia a vivere una lunghissima vita.
Il poeta, con il riferimento sopra citato, nel quale la rapidità della morte e della sua rinascita è paragonata alle mutazioni dei ladri colpiti dai serpenti, sembrò credere, asserisce più di qualche commentatore, alla realtà effettiva della fenice, che veniva usata, peraltro, dai poeti suoi contemporanei come metafora per descrivere il personaggio dell’amante.
@ ERBA NÉ BIADO IN SUA VITA NON PASCE