24^ canto dell’Inferno.
Serpenti.
Nell’ottavo cerchio dell’Inferno, Malebolge. Settima bolgia. Il poeta narra: “Noi discendemmo il ponte fino alla sua estremità dove si congiunge con l’argine che divide la settima dall’ottava bolgia, e poi mi apparve la bolgia; e vi vidi dentro una terribile moltitudine di serpenti, e di una qualità così mostruosa che il ricordo mi disperde tuttora il sangue. La Libia non si vanti più con il suo deserto; perché anche se genera chelidri, iaculi e faree, e cencri con anfisibene, mai lasciò vedere né tanti animali pestiferi né così velenosi con tutta l’Etiopia né con ciò che è presso il Mar Rosso”.
Figure della letteratura latina, descritte da Lucano nella Farsaglia, questi serpenti furono favolosi esseri del deserto libico. Cominciamo dai chelidri: serpenti anfibi, i quali avanzavano senza torsione del corpo e sollevando al loro passaggio spirali di vapore.
Gli iaculi, per l’Ottimo commento, uno dei più rilevanti commenti del Trecento alla Commedia, erano serpenti volanti: “… li iaculi assaliscono gli uccelli in su li arbori… onde son detti iaculi, cioè, lancianti”, e per il Buti, uno dei primi commentatori della predetta: “questa è un’altra spezie che si lancia, e trafora quel che percuote, come una lancia o una saetta”.
Le faree, citate da Dante al femminile rispetto al phareas di Lucano, che è nome maschile, si muovevano in direzione dritta facendo un solco per terra con la coda. E i cencri, velenosissimi, con la pelle variegata in piccole macchie simili a chicchi di miglio e dall’andatura irregolare. Sempre il Buti: “Cencri, questa è una specie di serpenti, che sempre va torcendosi, e non va mai diritto”.
Infine, le anfisibene. Questi serpenti avevano una testa a ognuna delle estremità, ed erano in grado di muoversi in una direzione o nell’altra.
@ PIÙ NON SI VANTI LIBIA CON SUA RENA
Fonte: Enciclopedia dantesca, Treccani 1970