Tu vedresti il Zodïaco rubecchio

4^ canto del Purgatorio.

Dante e l’astrologia.

Nell’Antipurgatorio. Primo balzo. Pendici del Purgatorio. Virgilio dice al poeta: «Se la costellazione dei Gemelli fosse insieme a quel pianeta che muove la sua luce a nord e a sud, tu vedresti la zona rosseggiante dello Zodiaco ruotare ancora più vicino all’Orsa Maggiore e all’Orsa Minore, a meno che non abbandonasse la sua orbita consueta. Come ciò accada, se lo vuoi poter pensare, immagina, concentrato dentro di te, Gerusalemme con questo monte sulla Terra stare così, che ambedue hanno un solo orizzonte ed emisferi differenti; per cui il cammino che con suo danno Fetonte non riuscì a percorrere col carro del sole, vedrai come rispetto al Purgatorio è inevitabile che proceda da l’un lato, mentre rispetto a Gerusalemme dall’altro, se tu osservi attentamente».

Premesso che lo Zodiaco è il circolo massimo della sfera celeste, del quale il Sole occupa i diversi punti un giorno dietro l’altro, che lo stesso coincide con l’eclittica, che è inclinato sull’equatore di ca. 23^, e da un punto di vista astrologico è suddiviso in dodici parti uguali, le cd. ‘case’, ciascuna con il nome della costellazione ivi in essa compresa, è rilevante, in questa sede, l’analisi che ne fa Dante.

Il poeta era un grande appassionato di astrologia e per lui il posto occupato dal Sole lungo lo Zodiaco era di fondamentale importanza. Esempio eclatante di ciò si ha quando, sedendo con Virgilio sul primo balzo dell’Antipurgatorio con il volto verso est, resta sorpreso nel vedere il Sole alla sua sinistra, ossia verso nord (il verso indicativo di ciò, nel canto che stiamo trattando, è ‘tu vedresti il Zodïaco rubecchio ancora a l’Orse più stretto rotare‘), mentre si aspetta di vederlo alla sua destra, cioè verso il mezzogiorno.

Il fenomeno, gli spiega Virgilio nel modo sopra riportato, è dovuto al fatto che, agli antipodi di Gerusalemme, l’orientamento è quello dell’emisfero australe, quindi invertito rispetto a quanto succede in quello boreale; fenomeno che è tanto più accentuato quanto più ci si avvicina all’estate nell’emisfero boreale. Infatti, quando il Sole è nel segno dei Gemelli tra la fine di maggio e l’inizio di Giugno, per chi si trova nell’emisfero australe, in cui si avvicina l’inverno, il percorso che compie il Sole al di sopra della linea dell’orizzonte si svolge per l’intero entro la metà settentrionale della sfera visibile.

A completamento di quanto riportato finora, nel 10^ canto del Paradiso, Dante fa poi alcune interessanti considerazioni sul ruolo che l’obliquità o inclinazione dello Zodiaco gioca sulla vita degli uomini e sulle loro attività. Dalla stessa deriva, infatti, il ritmo delle stagioni e la differente distribuzione della virtù celeste, le variazioni della quale formano le leggi stesse dell’astrologia.

@ TU VEDRESTI IL ZODÏACO RUBECCHIO

Fonte: Enciclopedia dantesca, Treccani 1970

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Avvegna che la subitana fuga

3^ canto del Purgatorio.

(Canto III, nel quale di tratta de la seconda equalitade, cioè di coloro che per cagione dalcuna violenza che ricevettero, tardaro di qui a la loro fine a pentersi e confessarsi de loro falli, sì come sono quelli che muoiono in contumacia di Santa Chiesa scomunicati, li quali sono puniti in quel piano. In essempro di cotali peccatori nomina tra costoro il re Manfredi.)

Avvegna che la subitana fuga dispergesse color per la campagna, rivolti al monte ove ragion ne fruga, i’ mi ristrinsi a la fida compagna: e come sare’ io sanza lui corso? chi m’avria tratto su per la montagna? El mi parea da sé stesso rimorso: o dignitosa coscïenza e netta, come t’è picciol fallo amaro morso!

Quando li piedi suoi lasciar la fretta, che l’onestade ad ogn’atto dismaga, la mente mia, che prima era ristretta, lo ‘ntento rallargò, sì come vaga, e diedi il viso mio incontr’al poggio che ‘nverso ‘l ciel più alto si dislaga. Lo sol, che dietro fiammeggiava raggio, rotto m’era dinanzi a la figura, ch’avea in me de’ suoi raggi l’appoggio.

Io mi volsi dallato con paura di essere abbandonato, quand’io vidi solo dinanzi a me la terra oscura; e il mio conforto: «Perché pur diffidi»?, a dir mi cominciò tutto rivolto; «non credi tu me teco e ch’io ti guidi? Vespero è già colà dov’è sepolto lo corpo dentro al quale io facea ombra; Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto.

«Ora, se innanzi a me nulla s’aombra, non ti meravigliar più che d’i cieli che l’uno a l’altro raggio non ingombra. A sofferir tormenti, caldi e geli simili corpi la Virtù dispone che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli. Matto è chi spera che nostra ragione possa trascorrer la infinita via che tiene una sustanza in tre persone.

«State contenti, umana gente, al quia; ché, se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria; e disïar vedeste sanza frutto tai che sarebbe lor disio quetato, ch’etternalmente è dato lor per lutto; io dico d’Aristotele e di Plato e di molt’altri»; e qui chinò la fronte, e più non disse, e rimase turbato.

Noi divenimmo intanto a’ piè del monte; quivi trovammo la roccia sì erta, che n’darno vi sarien le gambe pronte. Tra Lerice e Turbìa la più diserta, la più rotta ruina è una scala, verso di quella, agevole e aperta. «Or chi sa da qual man la costa cala», disse ‘l maestro mio fermando ‘l passo, «sì che possa salir chi va sanz’ala?».

E mentre ch’e’ tenendo ‘l viso basso essaminava del cammin la mente, e io mirava suso intorno al sasso, da man sinistra m’apparì una gente d’anime, che movieno i piè ver’ noi, e non pareva, sì venïan lente.

«Leva», diss’io, «maestro, li occhi tuoi: ecco di qua chi ne darà consiglio, se tu da te medesmo aver nol puoi».

Guardò allora, e con libero piglio rispuose: «Andiamo in là, ch’ei vegnon piano; e tu ferma la spene, dolce figlio».

Ancora era quel popol di lontano, i’ dico dopo i nostri mille passi, quanto un buon gittator trarria con mano, quando si strinser tutti ai duri massi de l’alta ripa, e stetter fermi e stretti com’a guardar, chi va dubbiando, stassi.

«O ben finiti, o già spiriti eletti», Virgilio incominciò, «per quella pace ch’i’ credo che per voi tutti s’aspetti, ditene dove la montagna giace, sì che possibil sia l’andare in suso; ché perder tempo a chi più sa più spiace».

Come le pecorelle escon del chiuso a una, a due, a tre, e l’altre stanno timidette atterrando l’occhio e ‘l muso; e ciò che fa la prima, e l’altre fanno, addossandosi a lei, s’ella s’arresta, semplici e quete, e lo ‘mperché non sanno; sì vid’io muovere a venir la testa di quella mandra fortunata allotta, pudica in faccia e ne l’andare onesta. Come color dinanzi vider rotta la luce in terra dal mio destro canto, sì che l’ombra era da me a la grotta, restaro, e trasser sé in dietro alquanto, e tutti li altri che venieno appresso, non sappiendo ‘l perché, fenno altrettanto.

«Sanza vostra domanda io vi confesso che questo è corpo uman che voi vedete; per che ‘l lume del sole in terra è fesso. Non vi maravigliate, ma credete che non sanza virtù che da ciel vegna cerchi di soverchiar questa parete». Così ‘l maestro; e quella gente degna «Tornate», disse, «intrate innanzi dunque», coi dossi de le man facendo insegna. E un di loro incominciò: «Chiunque tu se’, così andando, volgi ‘l viso: pon mente se di là mi vedesti unque».

Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso: biondo era e bello e di gentile aspetto, ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso. Quand’io mi fui umilmente disdetto d’averlo visto mai, el disse: «Or vedi»; e mostrommi una piaga a sommo ‘l petto. Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi, nepote di Costanza imperadrice; ond’io ti priego che, quando tu riedi, vadi a mia bella figlia, genitrice de l’onor di Cicilia e d’Aragona, e dichi ‘l vero a lei, s’altro si dice.

«Poscia ch’io ebbi rotta la persona di due punte mortali, io mi rendei, piangendo, a quei che volontier perdona. Orribil furon li peccati miei; ma la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei. Se ‘l pastor di Cosenza, che a la caccia di me fu messo per Clemente allora, avesse in Dio ben letta questa faccia, l’ossa del corpo mio sarieno ancora in co del ponte presso a Benevento, sotto la guardia de la grave mora.

«Or le bagna la pioggia e move il vento di fuor del regno, quasi lungo ‘l Verde, dov’ e’ le trasmutò a lume spento. Per lor maladizion sì non si perde, che non possa tornar, l’etterno amore, mentre che la speranza ha fior del verde. Vero è che quale in contumacia more di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta, star li convien da questa ripa in fore, per ognun tempo ch’elli è stato, trenta, in sua presunzïon, se tal decreto più corto per buon prieghi non diventa. Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto, revelando a la mia buona Costanza come m’hai visto, e anco esto divieto; ché qui per quei di là molto s’avanza».

@ AVVEGNA CHE LA SUBITANA FUGA

Fonte: La Commedia secondo l’antica vulgata, Giorgio Petrocchi, Edizione Nazionale 1966-67

Poscia ch’io ebbi rotta la persona

3^ canto del Purgatorio.

La conversione di Manfredi.

Nell’Antipurgatorio. Dalla spiaggia verso le pendici del Purgatorio. Il poeta sente dire da Manfredi: «Dopo che il corpo fu aperto con due ferite letali, io mi raccomandai con fiducioso abbandono, piangendo, a Colui che volentieri rimette i peccati. I miei peccati furono spaventosi; ma la Bontà incommensurabile è così generosa, che accoglie ciò che si volge a essa».

A proposito della conversione di Manfredi effettuata poco prima della morte, della stessa esisteva una tradizione orale, della quale alcune tracce furono trovate nella cronaca di fra Iacopo d’Acqui, l’Imago Mundi, datata 1330-1340. Secondo tale narrazione, un certo conte Enrico, della famiglia di Manfredi, sarebbe stato testimone delle sue ultime parole: “Deus propitius esto mihi peccatori”, a causa delle quali poi il re si sarebbe salvato.

Parole, tra l’altro, riecheggianti quelle del pubblicano nella parabola evangelica di Luca (Vangelo 18,13), ed entrate successivamente a far parte della liturgia cristiana della penitenza. Tornando al racconto del frate, è certo che lo stesso ha lasciato aperta la congettura che le voci di cui alla tradizione orale di riferimento, fossero vere o meno, riguardassero la salvezza finale di Manfredi e che Dante si sia limitato a farle proprie, riportandole poeticamente nel 3^ canto del Purgatorio.

Per quanto riguarda, invece, il rapporto tra la suddetta conversione, la bontà di Dio e il tema della salvezza dell’anima di Manfredi, citiamo questo passo della Chiavacci Leonardi: “Il re scomunicato e peccatore (Orribil furon li peccati miei) che, già ferito a morte in battaglia, si rivolge a Dio con lacrime (io mi rendei, piangendo) e ne riceve l’abbraccio e il perdono, ci dice l’infinita ampiezza della misericordia divina, la gratuità della salvezza (data a chi ha peccato fino all’ultima ora), e l’unica cosa che è richiesta all’uomo per ottenerla: la conversione del cuore, anche all’ultimo breve momento, anche con una sola lacrima (come dirà poi Bonconte), con una sola parola. È questo il senso profondo del Purgatorio dantesco, che via via apparirà, in forme diverse, nelle diverse storie che verranno narrate”.

@ POSCIA CH’IO EBBI ROTTA LA PERSONA

Fonti: Enciclopedia dantesca, Treccani 1970

Purgatorio, Anna Maria Chiavacci Leonardi, Mondadori e successive ristampe

Pon mente se di là mi vedesti unque

3^ canto del Purgatorio.

Manfredi.

Nell’Antipurgatorio. Dalla spiaggia verso le pendici del Purgatorio. Manfredi dice a Dante: «Chiunque tu sia, continuando ad andare, volgi lo sguardo: considera attentamente se in Terra mi hai visto qualche volta».

Manfredi, della casa di Svevia, collocato dal poeta nell’Antipurgatorio tra le anime degli scomunicati, nacque nel 1232 dall’imperatore Federico II e Bianca Lancia di Monferrato. Personaggio di grande personalità e fascino, a diciotto anni, alla morte del padre, divenne reggente del regno di Sicilia per il fratello Corrado IV. Alla morte di costui, fu incoronato re a Palermo, ed esercitò il potere da vero e proprio avversario della Chiesa, la quale, non ritenendolo altro che un usurpatore, lo scomunicò diverse volte.

Manfredi cercò di riunire attorno a sé i Ghibellini italiani, con lo scopo manifesto di diventare il padrone incontrastato di tutta la penisola, un sogno che era stato già del padre. Così, sconfitti i Guelfi a Montaperti nel 1260, questo sogno sembrò tramutarsi in realtà. Ma Urbano IV chiamò in Italia Carlo I d’Angiò al fine di scongiurare tale pericolo; questi affrontò Manfredi a Benevento, nel 1266, dove lo svevo fu sconfitto e trovò la morte. I Ghibellini italiani ne fecero ben presto un’icona, esaltandone la bellezza, la cortesia e la generosità.

Dante lo ricordò nel De Vulgari eloquentia (I, XII,4) insieme al padre, come centro della corte letteraria del regno di Sicilia, dove nacque quanto di meglio si produceva allora nel Bel Paese; e lo lodò per la sua nobiltà d’animo e per la sua cura conferita alle facoltà più alte degli uomini.

“A questa ammirazione per l’aspetto letterario, o meglio culturale, della figura di Manfredi, doveva unirsi in Dante la simpatia per il progetto politico che egli aveva impersonato, di un potere laico italiano che contrastasse l’usurpazione temporale dei papi… Ma questi due elementi, che concorrono a determinare la temperie di prevalente simpatia che circonda qui la persona del principe svevo, non offuscavano il giudizio morale sulla sua vita, giudizio che in Dante non è mai alterato da personali inclinazioni o affetti” (Chiavacci Leonardi).

@ PON MENTE SE DI LÀ MI VEDESTI UNQUE

Fonti: Enciclopedia dantesca, Treccani 1970

Purgatorio, Anna Maria Chiavacci Leonardi, Mondadori e successive ristampe

Ecco di qua chi ne darà consiglio

3^ canto del Purgatorio.

I negligenti morti scomunicati.

Nell’Antipurgatorio. Dalla spiaggia verso le pendici del Purgatorio. Il poeta dice a Virgilio: «Maestro, alza il tuo guardo: ecco da questa parte chi ci darà un suggerimento, se tu non sei capace di averlo da solo».

Gli scomunicati, posti da Dante nell’Antipurgatorio, rappresentano la prima schiera dei negligenti (così chiamati perché tardarono a pentirsi fino all’estremo della loro vita) che egli incontra con Virgilio. I due poeti, infatti, subito dopo che si sono allontanati dalla spiaggia dove approdano i penitenti, raggiungono le pendici del Purgatorio, dove si fermano davanti a “una parete rocciosa così scoscesa, che le gambe vi sarebbero state inutilmente agili e volenterose”.

Le anime di coloro che muoiono in disubbidienza della Santa Chiesa, sebbene si siano pentiti nell’ultima parte della loro vita, camminano molto lentamente; esse devono aspettare fuori del Purgatorio vero e proprio per un tempo trenta volte maggiore di quello che hanno vissuto sulla Terra, appunto, in condizione di condanna da parte della Chiesa, a meno che la misura della sosta stabilita da apposito decreto ecclesiastico non sia abbreviato con valide preghiere.

Ai tempi di Dante, il concetto della scomunica era stato definito sullo sviluppo dell’anatema con cui erano colpiti, ai primordi del cristianesimo, gli eretici, sia singoli sia raggruppati nelle prime comunità. Nei secoli a venire, in specie nel XII^ e nel XIII^, la scomunica si venne articolando in due tipologie: l’ “excommunicatio minor”, pena che prima sospendeva e poi allontanava colui che ne veniva colpito per diverse ragioni e modi dalla comunità ecclesiastica e l’ “excommunicatio maior”, solenne e dichiarata eliminazione del singolo o del gruppo dalla stessa comunità. Esigeva, pertanto, una puntuale serie di cerimonie che sottolineavano la gravità della decisione emanata.

Per quanto riguarda la posizione dantesca verso gli scomunicati, essa trovò la sua precisa collocazione in ciò che per il poeta rappresentava la propria idea di cristianesimo, quindi non teologia o complesso di norme giuridiche, ma interiorità ispirata dal Vangelo e vissuta in adesione alla tradizione più intima della spiritualità di ognuno.

@ ECCO DI QUA CHI NE DARÀ CONSIGLIO

Fontie: Enciclopedia dantesca, Treccani 1970

Già era ‘l sole a l’orizzonte giunto

2^ canto del Purgatorio.

(Canto secondo, nel quale tratta de la prima equalitade cioè dilettazione di vanitade, nel quale peccato inviluppati sono puniti proprio fuori del purgatorio in uno piano, e in persona di costoro nomina il Casella, uomo di corte.)

Già era ‘l sole a l’orizzonte giunto lo cui meridian cerchio coverchia Ierusalèm col suo più alto punto; e la notte, che opposita a lui cerchia, uscia di Gange fuor con le Bilance, che le caggion di man quando soverchia; sì che le bianche e le vermiglie guance, là dov’i’ era, de la bella Aurora per troppa etate divenivan rance.

Noi eravam lunghesso mare ancora, come gente che pensa a suo cammino, che va col cuore e col corpo dimora. Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino, per li grossi vapor Marte rosseggia giù nel ponente sovra ‘l suol marino, cotal m’apparve, s’io ancor lo veggia, un lume per lo mar venir sì ratto, che ‘l muover suo nessun volar pareggia.

Dal qual com’io un poco ebbi ritratto l’occhio per domandar lo duca mio, rividil più lucente e maggior fatto. Poi d’ogne lato ad esso m’appario un non sapeva che bianco, e di sotto a poco a poco un altro a lui uscio. Lo mio maestro ancor non facea motto, mentre che i primi bianchi apparver ali; allor che ben conobbe il galeotto, gridò: «Fa, fa che le ginocchia cali. Ecco l’angel di Dio: piega le mani; omai vedrai di sì fatti officiali. Vedi che sdegna li argomenti umani, sì che remo non vuol, né altro velo che le ali sue, tra liti sì lontani. Vedi come l’ha dritte verso ‘l cielo, trattando l’aere con l’etterne penne, che non si mutan come mortal pelo».

Poi, come più e più verso noi venne l’uccel divino, più chiaro appariva: per che l’occhio da presso nol sostenne, ma chinail giuso; e quei sen venne a riva con uno vasello snelletto e leggero tanto che l’acqua nulla ne ‘nghiottiva. Da poppa stava il celestial nocchiero, tal che faria beato pur descripto; e più di cento spiriti entro sediero.

In exitu Isräel de Aegypto‘ cantavan tutti insieme ad una voce con quanto di quel salmo è poscia scripto. Poi fece il segno lor di santa croce; ond’ei si gittar tutti in su la piaggia: ed el sen gì, come venne, veloce. La turba che rimase lì, selvaggia parea del loco, rimirando intorno come colui che nove cose assaggia.

Da tutte parti saettava il giorno lo sol, ch’avea con le saette conte di mezzo ‘l ciel cacciato Capricorno, quando la nova gente alzò la fronte ver’ noi, dicendo a noi: «Se voi sapete, mostratene la via di gire al monte».

E Virgilio rispuose: «Voi credete forse che siamo esperti d’esto loco; ma noi siam peregrin come voi siete. Dianzi venimmo, innanzi a voi un poco, per altra via, che fu sì aspra e forte, che lo salire omai ne parrà gioco».

L’anime, che si fuor di me accorte, per lo spirare, ch’i’ era ancor vivo, maravigliando diventaro smorte. E come a messagger che porta ulivo tragge la gente per udir novelle, e di calcar nessun si mostra schivo, così al viso mio si affisar quelle anime fortunate tutte quante, quasi oblïando d’ire a farsi belle.

Io vidi una di lor trarresi avante per abbracciarmi, con sì grande affetto, che mosse me a far lo somigliante. Ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto! tre volte dietro a lei le mani avvinsi, e tante mi tornai con esse al petto. Di maraviglia, credo, mi dipinsi; per che l’ombra sorrise e si ritrasse, e io, seguendo lei, oltre mi pinsi. Soavemente disse ch’io posasse; allor conobbi chi era, e pregai che, per parlarmi, un poco s’arrestasse.

Rispuosemi: «Così com’io t’amai nel mortal corpo, così t’amo sciolta: però m’arresto; ma tu perché vai?».

«Casella mio, per tornar altra volta là dov’io son, fo io questo vïaggio», diss’io; «ma a te com’è tanta ora tolta?».

Ed elli a me: «Nessun m’è fatto oltraggio, se quei che leva quando e cui li piace, più volte m’ha negato esto passaggio; ché di giusto voler lo suo si face: veramente da tre mesi elli ha tolto chi ha voluto intrar, con tutta pace. Ond’io, ch’era ora a la marina vòlto dove l’acqua di Tevero s’insala, benignamente fu’ da lui ricolto. A quella foce ha elli or dritta l’ala, però che sempre quivi si ricoglie qual verso Acheronte non si cala».

E io: «Se nuova legge non ti toglie memoria o uso a l’amoroso canto che mi solea quetar tutte mie doglie, di ciò ti piaccia consolare alquanto l’anima mia, che, con tutta la sua persona venendo qui, è affannata tanto!».

Amor che ne la mente mi ragiona‘ cominciò elli allor sì dolcemente, che la dolcezza ancor dentro mi suona. Lo mio maestro e io e quella gente ch’eran con lui parevan sì contenti, come a nessun toccasse altro la mente. Noi eravam tutti fissi e attenti a le sue note; ed ecco il veglio onesto gridando: «Che è ciò, spiriti lenti? qual negligenza, quale stare è questo? Correte al monte a spogliarvi lo scoglio ch’esser non lascia a voi Dio manifesto».

Come quando, cogliendo biado o loglio, li colombi adunati a la pastura, queti, sanza mostrar l’usato orgoglio, se cosa appare ond’elli abbian paura, subitamente lasciano star l’esca, perch’assaliti son da maggior cura; così vid’io quella masnada fresca lasciar lo canto, e fuggir ver’ la costa, com’om che va, né sa dove riesca; né la nostra partita fu men tosta.

@ GIÀ ERA ‘L SOLE A L’ORIZZONTE GIUNTO

Fonte: La Commedia secondo l’antica vulgata, Giorgio Petrocchi, Edizione Nazionale 1966-67

Benignamente fu’ da lui ricolto

2^ canto del Purgatorio.

Casella.

Nell’Antipurgatorio. Spiaggia. Il poeta sente dire da Casella: «Non mi è stato fatto nessun torto, sebbene colui che accoglie quando e chi vuole, mi ha rifiutato più volte questo passaggio; perché la sua volontà si conforma a quella della giustizia divina: tuttavia da tre mesi egli ha imbarcato chi ha voluto entrare, senza suscitare dissensi. E io, che allora ero rivolto verso il tratto di mare dove le acque del Tevere da dolci diventano salate a contatto del mare, fui ricevuto da lui con affettuosa compiacenza. Adesso egli si dirige verso quella foce, poiché lì si riunisce sempre chi non scende verso l’Acheronte».

Casella, collocato da Dante nell’Antipurgatorio, sulla spiaggia tra le anime appena lì approdate, fu un musico e cantore vissuto tra il XIII e il XIV secolo e morto prima della primavera del 1300. Al riguardo, non vi sono dubbi sulla storicità di tale personaggio, che il poeta eleva a protagonista di questo canto, sebbene nulla si sappia della sua vita.

Definito dall’Ottimo commento “finissimo cantore”, fu fiorentino per Benvenuto da Imola, oltre che per il Buti, il Landino e il Vellutello, nonché per le Chiose Cassinesi, e di Pistoia secondo l’Anonimo fiorentino. Vi sono stati nel tempo altri riferimenti a personaggi con questo nome. Ne citiamo un paio, segnalati dal D’Ancona: il primo riguarda un Casella fiorentino che avrebbe fatto soggiorno a Bologna nel periodo 1284-1290, il secondo attiene a un Casella o Scarsella, citato nei registri della Biccherna di Siena, in quanto fatto oggetto di sanzione per essere stato sorpreso durante le ore notturne a gironzolare per la città dopo il terzo suono della campana comunale. Ma sembrerebbero inattendibili, perché in entrambi i casi manca la nota sulla professione da essi esercitata.

Per cui, il solo riferimento che abbia qualche attendibilità è quello costituito da una nota a margine di un madrigale di Lemmo da Pistoia, contenuta nel codice Vaticano 3214: “Et Casella diede il sono”. La qual cosa non significa di necessità, si potrebbe pensare, che il Casella dantesco mettesse in musica le canzoni di Dante, sebbene ne intoni propria una (Amor che ne la mente mi ragiona) al verso 112 del canto cui ci stiamo occupando.

@ BENIGNAMENTE FU’ DA LUI RICOLTO

Fonte: Enciclopedia dantesca, Treccani 1970

Cantavan tutti insieme ad una voce

2^ canto del Purgatorio.

Il canto dei penitenti.

Nell’Antipurgatorio. Spiaggia. Dante narra: «Il pilota divino stava a poppa, tale che renderebbe beato chiunque ne vedesse anche soltanto l’immagine dipinta; e più di cento spiriti sedevano dentro. Cantavano tutti insieme con voci concordi ‘Quando uscì Israele dall’Egitto‘ con quanto di quel salmo è composto dopo. Poi fece loro il segno della santa croce; ed essi sbarcarono tutti sulla spiaggia: ed egli se ne andò, veloce com’era giunto. La moltitudine che rimase lì, sembrava inesperta del luogo, guardandosi intorno con meraviglia come colui che vede d’un tratto cose ignote».

Il primo versetto del salmo 113, che celebra la liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù in Egitto, nella liturgia cristiana si cantava quando si trasportava il corpo di un defunto nel luogo sacro a lui destinato, in segno di simbolica liberazione dell’anima dai legami terreni. Ebbene, tale versetto il poeta lo fa cantare alle anime destinate alla salvezza che l’angelo nocchiero traghetta fino alla spiaggia dell’Antipurgatorio, provenienti dalla foce del Tevere.

Oh, che differenza rispetto ai dannati! Infatti, mentre costoro, trasportati sulla barca di Caronte all’altra sponda dell’Acheronte, non potevano fare altro che imprecare e piangere, come egli racconta nel 3^ canto dell’Inferno, queste anime, poco prima di approdare sulla spiaggia suddetta, cantano all’unisono un salmo che è perfettamente in linea con coloro che, come loro, si stanno liberando dalla servitù del peccato ed aspirano alla beatitudine celeste.

E come Dante e Virgilio, così esse ignorano del tutto il luogo dove sono capitate, più che mai incerte, come del resto i due poeti, sul comportamento da tenere: “e gli uni e le altre sospesi in uno stato di stupita esitazione, che li predispone alla curiosità dispersiva e al momentaneo oblio degli imminenti doveri; ancora legati tutti a pensieri, affetti, consuetudini terrestri, proclivi a cedere al richiamo nostalgico del dolce mondo, che le anime hanno appena abbandonato e Dante si è quasi illuso di ritrovare, placando la tensione dell’animo nella dolcezza del paesaggio mattutino, dopo la drammatica esperienza del viaggio infernale”, secondo il Sapegno).

@ CANTAVAN TUTTI INSIEME AD UNA VOCE

Fonti: Enciclopedia dantesca, Treccani 1970

Purgatorio, Natalino Sapegno, La Nuova Italia Editrice 1979, 12^ ristampa

Vedi che sdegna li argomenti umani

2^ canto del Purgatorio.

L’angelo nocchiero.

Nell’Antipurgatorio. Spiaggia. Virgilio dice al poeta: «Inginocchiati. Ecco l’angelo di Dio: unisci le mani in atto di preghiera; d’ora innanzi vedrai alcuni di tali messi celesti. Vedi che disprezza gli strumenti umani, così che non vuole remi, né altre vele che le sue ali, tra rive così distanti. Vedi come le ha alzate verso il cielo, fendendo l’aria con le piume eterne delle sue ali, che non cambiano come le piume degli uccelli terreni».

Il celestial nocchiero, come lo chiamerà Dante, rappresenta una delle non poche mirabili creazioni dell’intera Commedia scaturite dalla sua mente. I due poeti, dopo che hanno incontrato Catone l’Uticense ed essersi intrattenuti con lui, sono fermi sulla spiaggia dell’Antipurgatorio colti dall’insicurezza sul cammino da intraprendere (che coglie tutti coloro che giungono in un luogo mai frequentato prima), quando, scivolando sulla distesa del mare senza aver necessità di vele né di altri ‘strumenti umani’, ma solo per un impulso divino, vedono un natante avvicinarsi a riva.

Lo stesso è guidato da un angelo, dritto a poppa con le ali distese verso il cielo (e solo poco dopo apprenderemo, nel corso della narrazione, che il suo scopo è quello di traghettare gli spiriti destinati alla salvezza dalla foce del Tevere all’isola del Purgatorio). Tale visione è ritratta attraverso un procedimento tipicamente cinematografico – e non è il solo in tutta l’opera: prima viene percepita una luce dall’osservatore (vale a dire, il volto dell’angelo) che procede ad una velocità inimmaginabile per i parametri degli uomini, poi due macchie di colore bianco, le quali, soltanto dopo la loro apparizione concreta potranno essere individuate come ali, infine un’altra massa, sempre bianca, che man mano si delinea: la veste dell’angelo.

Insomma, in questa scena, per descriverla con le parole del Sapegno, “tutto è vero di una verità ed esattezza quasi scientifica, e tutto è indeterminato, soffuso di meraviglia e di mistero”.

@ VEDI CHE SDEGNA LI ARGOMENTI UMANI

Fonti: Enciclopedia dantesca, Treccani 1970

Purgatorio, Natalino Sapegno, La Nuova Italia Editrice, 12^ ristampa 1979

Per correr miglior acque alza le vele

1^ canto del Purgatorio.

(Comincia la seconda parte overo cantica della Comedia di Dante Allaghieri di Firenze, ne la quale parte si purgano li commessi peccati e vizi de’ quali l’uomo è confesso e pentuto con animo di sodisfazione; e contiene XXXIII canti. Qui sono quelli che sperano di venire quando che sia a le beati genti.)

Per correr miglior acque alza le vele omai la navicella del mio ingegno, che lascia dietro a sé mar sì crudele; e canterò di quel secondo regno dove l’umano spirito si purga e di salire al ciel diventa degno. Ma qui la morta poesì resurga, o sante Muse, poi che vostro sono; e qui Calïopè alquanto surga, seguitando il mio canto con quel suono di cui le Piche misere sentiro lo colpo tal, che disperar perdono.

Dolce color d’orïental zaffiro, che s’accoglieva nel sereno aspetto del mezzo, puro infino al primo giro, a li occhi miei ricominciò diletto, tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta che m’avea contristati li occhi e ‘l petto. Lo bel pianeto che d’amar conforta faceva tutto rider l’orïente, velando i Pesci ch’erano in sua scorta.

I’ mi volsi a man destra, e puosi mente a l’altro polo, e vidi quattro stelle non viste mai fuor ch’a la prima gente. Goder parea ‘l ciel di lor fiammelle: oh settentrïonal vedovo sito, poi che privato se’ di mirar quelle! Com’io da loro sguardo fui partito, un poco me volgendo a l’altro polo, là onde ‘l Carro già era sparito, vidi presso di me un veglio solo, degno di tanta reverenza in vista, che più non dee a padre alcun figliuolo.

Lunga la barba e di pel bianco mista portava, a’ suoi capelli simigliante, de’ quai cadeva al petto doppia lista. Li raggi de le quattro luci sante fregiavan sì la sua faccia di lume, ch’i’ ‘l vedea come ‘l sol fosse davante.

«Chi siete voi che contro al cieco fiume fuggita avete la pregione etterna?», diss’el, movendo quelle oneste piume. «Chi v’ha guidati, o che vi fu lucerna, uscendo fuor de la profonda notte che sempre nera fa la valle inferna? Son le leggi d’abisso così rotte? o è mutato in ciel novo consiglio, che, dannati, venite a le mie grotte?».

Lo duca mio allor mi diè di piglio, e con parole e con mani e con cenni reverenti mi fé le gambe e ‘l ciglio. Poscia rispuose lui: «Da me non venni: donna scese del ciel, per li cui prieghi de la mia compagnia costui sovvenni. Ma da ch’è tuo voler che più si spieghi di nostra condizion com’èll’è vera, esser non puote il mio che a te si nieghi.

«Questi non vide mai l’ultima sera; ma per la sua follia le fu sì presso, che molto poco tempo a volger era. Sì com’io dissi, fui mandato ad esso per lui campare; e non lì era altra via che questa per la quale i’ mi son messo. Mostrata ho lui tutta la gente ria; e ora intendo mostrar quelli spirti che purgan sé sotto la tua balìa.

«Com’io l’ho tratto, saria lungo a dirti; de l’alto scende virtù che m’aiuta conducerlo a vederti e a udirti. Or ti piaccia gradir la sua venuta: libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei la vita rifiuta. Tu ‘l sai, ché non ti fu per lei amara in Utica la morte, ove lasciasti la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.

«Non son li editti etterni per noi guasti, ché questi vive e Minòs me non lega; ma son del cerchio ove son li occhi casti di Marzia tua, che ‘n vista ancor ti priega, o santo petto, che per tua la tegni: per lo suo amore adunque a noi ti piega. Lasciane andar per li tuoi sette regni; grazie riporterò di te a lei, se d’esser mentovato là giù degni».

«Marzïa piacque tanto a li occhi miei mentre ch’i’ fu’ di là», diss’elli allora, «che quante grazie volse da me, fei. Or che di là dal mal fiume dimora, più muover non mi può, per quella legge che fatta fu quando me n’uscì’ fora. Ma se donna del ciel ti move e regge, come tu di’, non c’è mestier lusinghe: bastisi ben che per lei mi richegge.

«Va dunque, e fa che tu costui ricinghe d’un giunco schietto e che li lavi ‘l viso, sì ch’ogne sucidume quindi stinghe; ché non si converria, l’occhio sorpriso d’alcuna nebbia, andar dinanzi al primo ministro, ch’è di quei di paradiso. Questa isoletta intorno ad imo ad imo, là giù colà dove la batte l’onda, porta di giunchi sovra ‘l molle limo: null’altra pianta che facesse fronda o indurasse, vi puote aver vita, però ch’a le percosse non seconda. Poscia non sia di qua vostra reddita; lo sol vi mosterrà, che surge omai, prendere il monte a più lieve salita».

Così sparì; e io sù mi levai sanza parlare, e tutto mi ritrassi al duca mio, e li occhi a lui drizzai. El cominciò: «Figliuol, segui i miei passi: volgianci in dietro, ché di qua dichina questa pianura a’ suoi termini bassi». L’alba vinceva l’ora mattutina che fuggia innanzi, sì che di lontano conobbi il tremolar de la marina.

Noi andavam per lo solingo piano com’om che torna a la perduta strada, che ‘nfino ad essa li pare ire in vano. Quando noi fummo là ‘ve la rugiada pugna col sole, per essere in parte dove, ad orezza, poco si dirada, ambo le mani in su l’erbetta sparte soavemente ‘l mio maestro pose: ond’io, che fui accorto di sua arte, porsi ver’ lui le guance lagrimose; ivi mi fece tutto discoverto quel color che l’inferno mi nascose. Venimmo poi in sul lito diserto, che mai non vide navicar sue acque omo, che di tornar sia poscia esperto. Quivi mi cinse sì com’altrui piacque: oh maraviglia! ché qual elli scelse l’umile pianta, cotal si rinacque subitamente là onde l’avelse.

@ PER CORRER MIGLIOR ACQUE ALZA LE VELE

Fonte: La Commedia secondo l’antica vulgata, Giorgio Petrocchi, Edizione Nazionale 1966-67