Io fui di Montefeltro, io son Bonconte

5^ canto del Purgatorio.

Bonconte da Montefeltro.

Nell’Antipurgatorio. Secondo balzo. Pendici del Purgatorio. Bonconte da Montefeltro dice al poeta: «Deh, possa realizzarsi quel desiderio che ti conduce verso la sommità del monte, soccorri il mio con vera pietà cristiana! Io fui dei Montefeltro, io sono Bonconte; Giovanna e gli altri parenti non si curano di me; per cui io cammino tra costoro a capo chino».

Bonconte da Montefeltro, collocato da Dante nell’Antipurgatorio tra i negligenti “morti per forza”, fu figlio del conte Guido da Montefeltro (il famoso condottiero ghibellino incontrato dal poeta tra i consiglieri fraudolenti, Inferno, 27^ canto), e nacque intorno alla seconda metà del Duecento. Distintosi particolarmente nel 1287 nelle lotte tra i Guelfi e i Ghibellini aretini, fu tra i protagonisti principali della cacciata dei primi dalla città.

L’anno successivo fu uno dei comandanti che portarono allo scontro vittorioso con Siena alla Pieve del Toppo. Nel 1289 guidò i Ghibellini aretini nella guerra contro Firenze, comportandosi con valore nella battaglia di Campaldino (l’11 Giugno), dove morì. Non venne mai ritrovato il suo cadavere, e probabilmente fin dal giorno dopo nacque qualche leggenda per spiegare la misteriosa sparizione dello stesso; quindi, il racconto che ne fa il poeta, per bocca dello stesso Bonconte, nel prosieguo di quanto riportato in apertura nel momento in cui i due s’incontrano, si ritiene essere frutto della fantasia dantesca.

Aveva sposato una tale Giovanna, la quale, stando sempre a Dante, doveva essere ancora viva nel 1300. Ne ebbe una figlia, Manentessa. Quanto egli dice al poeta “Giovanna o altri non ha di me cura”, sembra riferirsi ad altre persone della sua casata (il fratello Federico o il conte Galasso di Montefeltro, che, avendolo dimenticato, non pregavano per lui in modo tale da affrettare la sua purificazione per poter ascendere in Paradiso.

Chiosa la Chiavacci Leonardi: “Dante, che partecipò alla battaglia (di Campaldino, ndr) nella schiera opposta, ne fa qui una figura mesta ed elegiaca, condotta in controcanto a quella cupa e tragica di Guido: le lacrime del figlio, che nella morte chiude le braccia facendo croce di se stesso, danno forte risalto al chiuso ed impenitente rancore del padre, e allo stesso tempo questa salvezza vuol essere, forse, un conforto a quella perdizione”.

@ IO FUI DI MONTEFELTRO, IO SON BONCONTE

Fonti: Enciclopedia dantesca, Treccani 1970

Purgatorio, Anna Maria Chiavacci Leonardi, Mondadori 1994 e successive ristampe

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Venivan genti a noi innanzi un poco

5^ canto del Purgatorio.

I negligenti “morti per forza”.

Nell’Antipurgatorio. Secondo balzo. Pendici del Purgatorio. Dante narra: “E intanto in direzione trasversale all’erta venivano spiriti un poco davanti a noi, cantando in versetti alternati il ‘Miserere’. Quando si avvidero che impedivo il passaggio dei raggi del sole attraverso il mio corpo, cambiarono il loro canto in un «oh!» lungo e rauco; e due di loro, in qualità di messaggeri, si avviarono verso di noi e ci domandarono: «Rendeteci edotti del vostro stato»”.

I negligenti “morti per forza”, posti dal poeta nell’Antipurgatorio, rappresentano la terza schiera dei negligenti. “Continuando a salire nell’Antipurgatorio, i poeti s’imbattono in un’altra schiera di anime, che anche più di quelle finora incontrate si mostrano, nei gesti che han qualcosa di violento e nelle parole affannose, ansiose di avvicinarsi, di parlare, di invocare una promessa di buoni suffragi. Sono anime di persone che morirono di morte violenta e fecero appena in tempo a invocare nell’estremo sospiro il perdono divino. Qui nell’Antipurgatorio le trattiene dunque la legge che incombe su tutti gli spiriti che tardarono fino all’ultimo la cura della propria salvezza”. Così il Sapegno.

La particolarità di queste anime è quella che esse palesano la voglia di essere ricordate fra i vivi, al contempo coltivando la speranza di poter accorciare il tempo del loro esilio, sentimenti del resto comuni a tutti coloro che si trovano nell’Antipurgatorio, con una più vivace trepidazione, che non si riscontra né tra gli scomunicati, né tra i pigri a pentirsi (vedi Belacqua).

Dante, per bocca di tre personaggi che lui incontra (Iacopo del Cassero, Bonconte di Montefeltro e Pia de’ Tolomei: degli ultimi due se ne parlerà a parte) rievoca le loro tristi sorti: il primo fu fatto uccidere dal tiranno di Ferrara, Azzo VIII d’Este nel Padovano; il secondo, morto nella battaglia di Campaldino, il cadavere del quale sparì nelle acque dell’Arno in piena; la gentildonna senese Pia de’ Tolomei, fatta morire in un castello della Maremma dal marito Nello de’ Pannocchieschi, non si sa per gelosia o perché volesse passare a nuove nozze, che poi fece.

@ VENIVAN GENTI INNANZI A NOI UN POCO

Fonti: Enciclopedia dantesca, Treccani 1970

Purgatorio, Natalino Sapegno, La Nuova Italia Editrice 1979, 12^ ristampa

Quando per dilettanze o ver per doglie

4^ canto del Purgatorio.

(Canto IV, dove si tratta de la soprascritta seconda qualitade, dove si purga chi per negligenza di qui a la morte si tardò a confessare; tra i quali si nomina il Belacqua, uomo di corte.)

Quando per dilettanze o ver per doglie, che alcuna virtù nostra comprenda, l’anima bene ad essa si raccoglie, par ch’a nulla potenza più intenda; e questo è contra quello error che crede ch’un’anima sovr’altra in noi s’accenda. E però, quando s’ode cosa o vede che tegna forte a sé l’anima volta, vassene ‘l tempo e l’uom non se n’avvede; ch’altra potenza è quella che l’ascolta, e altra è quella c’ha l’anima intera: questa è quasi legata e quella è sciolta.

Di ciò ebb’io esperïenza vera, udendo quello spirito e ammirando; ché ben cinquanta gradi salito era lo sole, e io non m’era accorto, quando venimmo ove quell’anime ad una gridaro a noi: «Qui è vostro dimando». Maggiore aperta molte volte impruna con una forcatella di sue spine l’uom de la villa quando l’uva imbruna, che non era la calla onde salìne lo duca mio, e io appresso, soli, come da noi la schiera si partìne.

Vassi in Sanleo e discendesi in Noli, montasi su in Bismantova e ‘n Cacume con esso i piè; ma qui convien ch’om voli; dico con l’ale snelle e con le piume del gran disio, di retro a quel condotto che speranza mi dava e facea lume. Noi salavam per entro ‘l sasso rotto, e d’ogne lato ne stringea lo stremo, e piedi e man volea il suol di sotto. Poi che fummo in su l’orlo suppremo de l’alta ripa, a la scoperta piaggia, «Maestro mio», diss’io, «che via faremo?».

Ed elli a me: «Nessun tuo passo caggia; pur su al monte dietro a me acquista, fin che n’appaia alcuna scorta saggia».

Lo sommo er’alto che vincea la vista, e la costa superba più assai che da mezzo quadrante a centro lista. Io era lasso, quando cominciai: «O dolce padre, volgiti, e rimira com’io rimango sol, se non restai».

«Figliuol mio», disse, «infin quivi ti tira», additandomi un balzo poco in sùe che da quel lato il poggio tutto gira. Sì mi spronaron le parole sue, ch’i’ mi sforzai carpando appresso lui, tanto che ‘l cinghio sotto i piè mi fue. A seder ci ponemmo ivi ambedui vòlti a levante ond’eravam saliti, che suole a riguardar giovare altrui. Li occhi prima drizzai ai bassi lidi; poscia li alzai al sole, e ammirava che da sinistra n’eravam feriti. Ben s’avvide il poeta ch’ïo stava stupido tutto al carro de la luce, ove tra noi e Aquilone intrava.

Ond’elli a me: «Se Castore e Poluce fossero in compagnia di quello specchio che sù e giù del suo lume conduce, tu vedresti il Zodïaco rubecchio ancora a l’Orse più stretto rotare, se non uscisse fuor del cammin vecchio. Come ciò sia, se ‘l vuoi poter pensare, dentro raccolto, imagina Sïòn con questo monte in su la terra stare sì, ch’amendue hanno un solo orizzòn e diversi emisperi; onde la strada che mal non seppe carreggiar Fetòn, vedrai come a costui convien che vada da l’un, quando a colui da l’altro fianco, se lo ‘ntelletto tuo ben chiaro bada».

«Certo, maestro mio», diss’io, «unquanco non vid’io chiaro sì com’io discerno là dove mio ingegno parea manco, che ‘l mezzo cerchio del moto superno, che si chiama Equatore in alcun’arte, e che sempre riman tra ‘l sole e ‘l verno, per la ragion che di’, quinci si parte verso settentrïon, quanto li Ebrei vedevan lui verso la calda parte. Ma se a te piace, volontier saprei quanto avemo ad andar; ché ‘l poggio sale più che salir non posson li occhi miei».

Ed elli a me: «Questa montagna è tale, che sempre al cominciar di sotto è grave; e quant’om più va sù, e men fa male. Però, quand’ella ti parrà soave tanto, che sù andar ti fia leggero com’a seconda giù andar per nave, allor sarai al fin d’esto sentiero; quivi di riposar l’affanno aspetta. Più non rispondo, e questo so per vero».

E com’elli ebbe la sua parola detta, una voce di presso sonò: «Forse che di sedere in pria avrai distretta!». Al suon di lei ciascun di noi si torse, e vedemmo a mancina un gran petrone, del qual né io né ei prima s’accorse. Là ci traemmo; e ivi eran persone che si stavano a l’ombra dietro al sasso come l’uom per negghienza a star si pone. E un di lor, che mi sembiava lasso, sedeva e abbracciava le ginocchia, tenendo ‘l viso giù tra esse basso.

«O dolce segnor mio» diss’io, «adocchia colui che mostra sé più negligente che se pigrizia fosse sua serocchia».

Allor si volse a noi e puose mente, movendo ‘l viso pur su per la coscia, e disse: «Or va tu sù, che se’ valente!». Conobbi allor chi era, e quella angoscia che m’avacciava un poco ancor la lena, non m’impedì l’andare a lui; e poscia ch’a lui fu’ giunto, alzò la testa a pena, dicendo: «Hai ben veduto come ‘l sole da l’omero sinistro il carro mena?».

Li atti suoi pigri e le corte parole mosser le labbra mie un poco a riso; poi cominciai: «Belacqua, a me non dole di te omai; ma dimmi: perché assiso quiritto se’? attendi tu iscorta, o pur lo modo usato t’ha’ ripriso?».

Ed elli: «O frate, andar in sù che porta? ché non mi lascerebbe ire a’ martiri l’angel di Dio che siede in su la porta. Prima convien che tanto il ciel m’aggiri di fuor da essa, quanto fece in vita, perch’io ‘ndugiai al fine i buon sospiri, se orazïone in prima non m’aita che surga sù di cuor che in grazia viva; l’altra che val, che ‘n ciel non è udita?».

E già il poeta innanzi mi saliva, e dicea: «Vienne omai; vedi ch’è tocco meridïan dal sole, e a la riva cuopre la notte già col piè Morrocco».

@ QUANDO PER DILETTANZE O VER PER DOGLIE

Fonte: La Commedia secondo l’antica vulgata, Giorgio Petrocchi, Edizione Nazionale 1966-67

Prima convien che tanto il ciel m’aggiri

4^ canto del Purgatorio.

Belacqua.

Nell’Antipurgatorio. Primo balzo. Pendici del Purgatorio. Il poeta sente dire da Belacqua: «O fratello, a che giova salire? Perché l’angelo di Dio che siede sulla porta del Purgatorio non mi lascerebbe andare ai tormenti. Prima dovrà avvenire che i cieli mi girino tanto intorno fuori da essa, quanto mi girarono intorno in vita, perché io rimandai all’ultima parte della mia vita i validi sospiri, a meno che non mi soccorra prima una preghiera che nasca su da un cuore in grazia di Dio; l’altra a che giova, che non è esaudita in Paradiso?».

Belacqua, collocato da Dante nell’Antipurgatorio tra i negligenti pigri a pentirsi, fu un suo amico e vicino di casa. A proposito di questo personaggio, l’Anonimo Fiorentino, uno dei primi commentatori della Commedia, a suo tempo scrisse: “Questo Belacqua fu un cittadino da Firenze, artefice, e facea cotai colli di liuti e di chitarre, et era il più pigro uomo che fosse mai; et si dice di lui ch’egli veniva la mattina a bottega, et ponevasi a sedere, et mai non si levava se non quando egli voleva ire a desinare et a dormire. Ora l’Auttore fu forte suo dimestico: molto il riprendea di questa sua negligenzia; onde un dì, riprendendolo, Belacqua rispose con le parole d’Aristotele: Sedendo et quiescendo anima efficitur sapiens; di che l’Auttore gli rispose: Per certo, se per sedere si diventa savio, niuno fu mai più savio di te”.

Di lui si sono trovate tracce negli archivi fiorentini, riferite a tale Duccio di Bonavia, detto Belacqua, ancora vivo nel 1299, ma morto prima del 1302, abitante nel quartiere di San Procolo, limitrofo alla residenza degli Alighieri, che era situata nel quartiere di San Martino. La Chiavacci Leonardi, a commento di costui nel canto in questione, ha precisato: “L’identificazione appare molto probabile, se non certa. La vicinanza di casa, e la professione di liutaio riferita dai commentatori, rendono ragione della «dimestichezza» di Dante con lui di cui parla l’Anonimo… Come Casella, anche questo amico è morto da poco, e la consuetudine appena interrotta sembra riprendere, al di là della morte, con modi uguali e insieme diversi, per quel velo che la soglia oltrepassata pone ora tra i due”.

@ PRIMA CONVIEN CHE TANTO IL CIEL M’AGGIRI

Fonti: Enciclopedia dantesca, Treccani 1970

Purgatorio, Anna Maria Chiavacci Leonardi, Mondadori 1994 e successive ristampe

Là ci traemmo; e ivi eran persone

4^ canto del Purgatorio.

I negligenti pigri a pentirsi.

Nell’Antipurgatorio. Primo balzo. Pendici del Purgatorio. Dante narra: “E appena egli ebbe fatto il suo discorso, una voce nei pressi disse: «Forse prima avrai bisogno di sederti!». Al suono di essa ciascuno di noi si volse, e vedemmo a sinistra un grande masso, del quale né io né lui si era avveduto in precedenza. Là ci accostammo; e lì c’erano alcuni che se ne stavano all’ombra dietro il masso come uno che se ne sta seduto per trascuratezza”.

I negligenti pigri a pentirsi, posti dal poeta nell’Antipurgatorio, rappresentano la seconda schiera dei negligenti, e lui e Virgilio li incontrano nel primo balzo di questo luogo. Costoro, per mera pigrizia, nella loro vita terrena trascurarono l’esercizio delle virtù e aspettarono gli ultimi istanti di vita per pentirsi dei loro peccati. Le loro anime sono sedute all’ombra di un grande masso, in atteggiamento e posa che attestano il carattere che li contraddistingueva in vita. Dante viene a sapere da una di loro (Belacqua, un suo vecchio amico), come se volesse giustificarsi della sua indolenza e di quella altrui, che devono rimanere nell’Antipurgatorio tanto tempo quanto vissero, a meno che non siano aiutati ad accorciare il tempo da una preghiera che nasca su da un cuore in grazia di Dio.

Secondo il Busnelli, che fece propria la l’ordinazione dell’Antipurgatorio in base alla classificazione operata dal poeta per il 7^ cerchio dell’Inferno, queste anime, insieme a quelle che seguiranno (i negligenti morti per violenza) sono i rappresentanti della negligenza usata verso sé stessi. A tale criterio si uniformò il Santi, il quale, però, cercando di aderire di più al pensiero di Dante, considerò i pigri a pentirsi più colpevoli di negligenza di quelli sopra citati.

Da parte sua, il Pietrobono, rifacendosi ad un’interpretazione più meramente allegorica, dopo aver notato che il poeta ha rappresentato l’accidia sempre sulle cd. piagge, ha visto nei pigri a pentirsi, nei morti per violenza e nei principi negligenti (l’ultima categoria di negligenti che i due poeti incontreranno nell’Antipurgatorio) un puntuale riferimento alle tre fiere di cui al 1^ canto dell’Inferno.

@ LÀ CI TRAEMMO; E IVI ERAN PERSONE

Fonte: Enciclopedia dantesca, Treccani 1970

Tu vedresti il Zodïaco rubecchio

4^ canto del Purgatorio.

Dante e l’astrologia.

Nell’Antipurgatorio. Primo balzo. Pendici del Purgatorio. Virgilio dice al poeta: «Se la costellazione dei Gemelli fosse insieme a quel pianeta che muove la sua luce a nord e a sud, tu vedresti la zona rosseggiante dello Zodiaco ruotare ancora più vicino all’Orsa Maggiore e all’Orsa Minore, a meno che non abbandonasse la sua orbita consueta. Come ciò accada, se lo vuoi poter pensare, immagina, concentrato dentro di te, Gerusalemme con questo monte sulla Terra stare così, che ambedue hanno un solo orizzonte ed emisferi differenti; per cui il cammino che con suo danno Fetonte non riuscì a percorrere col carro del sole, vedrai come rispetto al Purgatorio è inevitabile che proceda da l’un lato, mentre rispetto a Gerusalemme dall’altro, se tu osservi attentamente».

Premesso che lo Zodiaco è il circolo massimo della sfera celeste, del quale il Sole occupa i diversi punti un giorno dietro l’altro, che lo stesso coincide con l’eclittica, che è inclinato sull’equatore di ca. 23^, e da un punto di vista astrologico è suddiviso in dodici parti uguali, le cd. ‘case’, ciascuna con il nome della costellazione ivi in essa compresa, è rilevante, in questa sede, l’analisi che ne fa Dante.

Il poeta era un grande appassionato di astrologia e per lui il posto occupato dal Sole lungo lo Zodiaco era di fondamentale importanza. Esempio eclatante di ciò si ha quando, sedendo con Virgilio sul primo balzo dell’Antipurgatorio con il volto verso est, resta sorpreso nel vedere il Sole alla sua sinistra, ossia verso nord (il verso indicativo di ciò, nel canto che stiamo trattando, è ‘tu vedresti il Zodïaco rubecchio ancora a l’Orse più stretto rotare‘), mentre si aspetta di vederlo alla sua destra, cioè verso il mezzogiorno.

Il fenomeno, gli spiega Virgilio nel modo sopra riportato, è dovuto al fatto che, agli antipodi di Gerusalemme, l’orientamento è quello dell’emisfero australe, quindi invertito rispetto a quanto succede in quello boreale; fenomeno che è tanto più accentuato quanto più ci si avvicina all’estate nell’emisfero boreale. Infatti, quando il Sole è nel segno dei Gemelli tra la fine di maggio e l’inizio di Giugno, per chi si trova nell’emisfero australe, in cui si avvicina l’inverno, il percorso che compie il Sole al di sopra della linea dell’orizzonte si svolge per l’intero entro la metà settentrionale della sfera visibile.

A completamento di quanto riportato finora, nel 10^ canto del Paradiso, Dante fa poi alcune interessanti considerazioni sul ruolo che l’obliquità o inclinazione dello Zodiaco gioca sulla vita degli uomini e sulle loro attività. Dalla stessa deriva, infatti, il ritmo delle stagioni e la differente distribuzione della virtù celeste, le variazioni della quale formano le leggi stesse dell’astrologia.

@ TU VEDRESTI IL ZODÏACO RUBECCHIO

Fonte: Enciclopedia dantesca, Treccani 1970

Avvegna che la subitana fuga

3^ canto del Purgatorio.

(Canto III, nel quale di tratta de la seconda equalitade, cioè di coloro che per cagione dalcuna violenza che ricevettero, tardaro di qui a la loro fine a pentersi e confessarsi de loro falli, sì come sono quelli che muoiono in contumacia di Santa Chiesa scomunicati, li quali sono puniti in quel piano. In essempro di cotali peccatori nomina tra costoro il re Manfredi.)

Avvegna che la subitana fuga dispergesse color per la campagna, rivolti al monte ove ragion ne fruga, i’ mi ristrinsi a la fida compagna: e come sare’ io sanza lui corso? chi m’avria tratto su per la montagna? El mi parea da sé stesso rimorso: o dignitosa coscïenza e netta, come t’è picciol fallo amaro morso!

Quando li piedi suoi lasciar la fretta, che l’onestade ad ogn’atto dismaga, la mente mia, che prima era ristretta, lo ‘ntento rallargò, sì come vaga, e diedi il viso mio incontr’al poggio che ‘nverso ‘l ciel più alto si dislaga. Lo sol, che dietro fiammeggiava raggio, rotto m’era dinanzi a la figura, ch’avea in me de’ suoi raggi l’appoggio.

Io mi volsi dallato con paura di essere abbandonato, quand’io vidi solo dinanzi a me la terra oscura; e il mio conforto: «Perché pur diffidi»?, a dir mi cominciò tutto rivolto; «non credi tu me teco e ch’io ti guidi? Vespero è già colà dov’è sepolto lo corpo dentro al quale io facea ombra; Napoli l’ha, e da Brandizio è tolto.

«Ora, se innanzi a me nulla s’aombra, non ti meravigliar più che d’i cieli che l’uno a l’altro raggio non ingombra. A sofferir tormenti, caldi e geli simili corpi la Virtù dispone che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli. Matto è chi spera che nostra ragione possa trascorrer la infinita via che tiene una sustanza in tre persone.

«State contenti, umana gente, al quia; ché, se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria; e disïar vedeste sanza frutto tai che sarebbe lor disio quetato, ch’etternalmente è dato lor per lutto; io dico d’Aristotele e di Plato e di molt’altri»; e qui chinò la fronte, e più non disse, e rimase turbato.

Noi divenimmo intanto a’ piè del monte; quivi trovammo la roccia sì erta, che n’darno vi sarien le gambe pronte. Tra Lerice e Turbìa la più diserta, la più rotta ruina è una scala, verso di quella, agevole e aperta. «Or chi sa da qual man la costa cala», disse ‘l maestro mio fermando ‘l passo, «sì che possa salir chi va sanz’ala?».

E mentre ch’e’ tenendo ‘l viso basso essaminava del cammin la mente, e io mirava suso intorno al sasso, da man sinistra m’apparì una gente d’anime, che movieno i piè ver’ noi, e non pareva, sì venïan lente.

«Leva», diss’io, «maestro, li occhi tuoi: ecco di qua chi ne darà consiglio, se tu da te medesmo aver nol puoi».

Guardò allora, e con libero piglio rispuose: «Andiamo in là, ch’ei vegnon piano; e tu ferma la spene, dolce figlio».

Ancora era quel popol di lontano, i’ dico dopo i nostri mille passi, quanto un buon gittator trarria con mano, quando si strinser tutti ai duri massi de l’alta ripa, e stetter fermi e stretti com’a guardar, chi va dubbiando, stassi.

«O ben finiti, o già spiriti eletti», Virgilio incominciò, «per quella pace ch’i’ credo che per voi tutti s’aspetti, ditene dove la montagna giace, sì che possibil sia l’andare in suso; ché perder tempo a chi più sa più spiace».

Come le pecorelle escon del chiuso a una, a due, a tre, e l’altre stanno timidette atterrando l’occhio e ‘l muso; e ciò che fa la prima, e l’altre fanno, addossandosi a lei, s’ella s’arresta, semplici e quete, e lo ‘mperché non sanno; sì vid’io muovere a venir la testa di quella mandra fortunata allotta, pudica in faccia e ne l’andare onesta. Come color dinanzi vider rotta la luce in terra dal mio destro canto, sì che l’ombra era da me a la grotta, restaro, e trasser sé in dietro alquanto, e tutti li altri che venieno appresso, non sappiendo ‘l perché, fenno altrettanto.

«Sanza vostra domanda io vi confesso che questo è corpo uman che voi vedete; per che ‘l lume del sole in terra è fesso. Non vi maravigliate, ma credete che non sanza virtù che da ciel vegna cerchi di soverchiar questa parete». Così ‘l maestro; e quella gente degna «Tornate», disse, «intrate innanzi dunque», coi dossi de le man facendo insegna. E un di loro incominciò: «Chiunque tu se’, così andando, volgi ‘l viso: pon mente se di là mi vedesti unque».

Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso: biondo era e bello e di gentile aspetto, ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso. Quand’io mi fui umilmente disdetto d’averlo visto mai, el disse: «Or vedi»; e mostrommi una piaga a sommo ‘l petto. Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi, nepote di Costanza imperadrice; ond’io ti priego che, quando tu riedi, vadi a mia bella figlia, genitrice de l’onor di Cicilia e d’Aragona, e dichi ‘l vero a lei, s’altro si dice.

«Poscia ch’io ebbi rotta la persona di due punte mortali, io mi rendei, piangendo, a quei che volontier perdona. Orribil furon li peccati miei; ma la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei. Se ‘l pastor di Cosenza, che a la caccia di me fu messo per Clemente allora, avesse in Dio ben letta questa faccia, l’ossa del corpo mio sarieno ancora in co del ponte presso a Benevento, sotto la guardia de la grave mora.

«Or le bagna la pioggia e move il vento di fuor del regno, quasi lungo ‘l Verde, dov’ e’ le trasmutò a lume spento. Per lor maladizion sì non si perde, che non possa tornar, l’etterno amore, mentre che la speranza ha fior del verde. Vero è che quale in contumacia more di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta, star li convien da questa ripa in fore, per ognun tempo ch’elli è stato, trenta, in sua presunzïon, se tal decreto più corto per buon prieghi non diventa. Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto, revelando a la mia buona Costanza come m’hai visto, e anco esto divieto; ché qui per quei di là molto s’avanza».

@ AVVEGNA CHE LA SUBITANA FUGA

Fonte: La Commedia secondo l’antica vulgata, Giorgio Petrocchi, Edizione Nazionale 1966-67

Poscia ch’io ebbi rotta la persona

3^ canto del Purgatorio.

La conversione di Manfredi.

Nell’Antipurgatorio. Dalla spiaggia verso le pendici del Purgatorio. Il poeta sente dire da Manfredi: «Dopo che il corpo fu aperto con due ferite letali, io mi raccomandai con fiducioso abbandono, piangendo, a Colui che volentieri rimette i peccati. I miei peccati furono spaventosi; ma la bontà incommensurabile di Dio è così generosa, che accoglie ciò che si volge a essa».

A proposito della conversione di Manfredi effettuata poco prima della morte, della stessa esisteva una tradizione orale, della quale alcune tracce furono trovate nella cronaca di fra Iacopo d’Acqui, l’Imago Mundi, datata 1330-1340. Secondo tale narrazione, un certo conte Enrico, della famiglia di Manfredi, sarebbe stato testimone delle sue ultime parole: “Deus propitius esto mihi peccatori”, a causa delle quali poi il re si sarebbe salvato.

Parole, tra l’altro, riecheggianti quelle del pubblicano nella parabola evangelica di Luca (Vangelo 18,13), ed entrate successivamente a far parte della liturgia cristiana della penitenza. Tornando al racconto del frate, è certo che lo stesso ha lasciato aperta la congettura che le voci di cui alla tradizione orale di riferimento, fossero vere o meno, riguardassero la salvezza finale di Manfredi e che Dante si sia limitato a farle proprie, riportandole poeticamente nel 3^ canto del Purgatorio.

Per quanto riguarda, invece, il rapporto tra la suddetta conversione, la bontà di Dio e il tema della salvezza dell’anima di Manfredi, citiamo questo passo della Chiavacci Leonardi: “Il re scomunicato e peccatore (Orribil furon li peccati miei) che, già ferito a morte in battaglia, si rivolge a Dio con lacrime (io mi rendei, piangendo) e ne riceve l’abbraccio e il perdono, ci dice l’infinita ampiezza della misericordia divina, la gratuità della salvezza (data a chi ha peccato fino all’ultima ora), e l’unica cosa che è richiesta all’uomo per ottenerla: la conversione del cuore, anche all’ultimo breve momento, anche con una sola lacrima (come dirà poi Bonconte), con una sola parola. È questo il senso profondo del Purgatorio dantesco, che via via apparirà, in forme diverse, nelle diverse storie che verranno narrate”.

@ POSCIA CH’IO EBBI ROTTA LA PERSONA

Fonti: Enciclopedia dantesca, Treccani 1970

Purgatorio, Anna Maria Chiavacci Leonardi, Mondadori 1994 e successive ristampe

Pon mente se di là mi vedesti unque

3^ canto del Purgatorio.

Manfredi.

Nell’Antipurgatorio. Dalla spiaggia verso le pendici del Purgatorio. Manfredi dice a Dante: «Chiunque tu sia, continuando ad andare, volgi lo sguardo: considera attentamente se in Terra mi hai visto qualche volta».

Manfredi, della casa di Svevia, collocato dal poeta nell’Antipurgatorio tra gli scomunicati, nacque nel 1232 dall’imperatore Federico II e Bianca Lancia di Monferrato. Personaggio di grande personalità e fascino, a diciotto anni, alla morte del padre, divenne reggente del regno di Sicilia per il fratello Corrado IV. Alla morte di costui, fu incoronato re a Palermo, ed esercitò il potere da vero e proprio avversario della Chiesa, la quale, non ritenendolo altro che un usurpatore, lo scomunicò diverse volte.

Manfredi cercò di riunire attorno a sé i Ghibellini italiani, con lo scopo manifesto di diventare il padrone incontrastato di tutta la penisola, un sogno che era stato già del padre. Così, sconfitti i Guelfi a Montaperti nel 1260, questo sogno sembrò tramutarsi in realtà. Ma Urbano IV chiamò in Italia Carlo I d’Angiò al fine di scongiurare tale pericolo; questi affrontò Manfredi a Benevento, nel 1266, dove lo svevo fu sconfitto e trovò la morte. I Ghibellini italiani ne fecero ben presto un’icona, esaltandone la bellezza, la cortesia e la generosità.

Dante lo ricordò nel De Vulgari eloquentia (I, XII,4) insieme al padre, come centro della corte letteraria del regno di Sicilia, dove nacque quanto di meglio si produceva allora nel Bel Paese; e lo lodò per la sua nobiltà d’animo e per la sua cura conferita alle facoltà più alte degli uomini.

“A questa ammirazione per l’aspetto letterario, o meglio culturale, della figura di Manfredi, doveva unirsi in Dante la simpatia per il progetto politico che egli aveva impersonato, di un potere laico italiano che contrastasse l’usurpazione temporale dei papi… Ma questi due elementi, che concorrono a determinare la temperie di prevalente simpatia che circonda qui la persona del principe svevo, non offuscavano il giudizio morale sulla sua vita, giudizio che in Dante non è mai alterato da personali inclinazioni o affetti” (Chiavacci Leonardi).

@ PON MENTE SE DI LÀ MI VEDESTI UNQUE

Fonti: Enciclopedia dantesca, Treccani 1970

Purgatorio, Anna Maria Chiavacci Leonardi, Mondadori 1994 e successive ristampe

Ecco di qua chi ne darà consiglio

3^ canto del Purgatorio.

I negligenti morti scomunicati.

Nell’Antipurgatorio. Dalla spiaggia verso le pendici del Purgatorio. Il poeta dice a Virgilio: «Maestro, alza il tuo guardo: ecco da questa parte chi ci darà un suggerimento, se tu non sei capace di averlo da solo».

Gli scomunicati, posti da Dante nell’Antipurgatorio, rappresentano la prima schiera dei negligenti (così chiamati perché tardarono a pentirsi fino all’estremo della loro vita) che egli incontra con Virgilio. I due poeti, infatti, subito dopo che si sono allontanati dalla spiaggia dove approdano i penitenti, raggiungono le pendici del Purgatorio, dove si fermano davanti a “una parete rocciosa così scoscesa, che le gambe vi sarebbero state inutilmente agili e volenterose”.

Le anime di coloro che muoiono in disubbidienza della Santa Chiesa, sebbene si siano pentiti nell’ultima parte della loro vita, camminano molto lentamente; esse devono aspettare fuori del Purgatorio vero e proprio per un tempo trenta volte maggiore di quello che hanno vissuto sulla Terra, appunto, in condizione di condanna da parte della Chiesa, a meno che la misura della sosta stabilita da apposito decreto ecclesiastico non sia abbreviato con valide preghiere.

Ai tempi di Dante, il concetto della scomunica era stato definito sullo sviluppo dell’anatema con cui erano colpiti, ai primordi del cristianesimo, gli eretici, sia singoli sia raggruppati nelle prime comunità. Nei secoli a venire, in specie nel XII^ e nel XIII^, la scomunica si venne articolando in due tipologie: l’ “excommunicatio minor”, pena che prima sospendeva e poi allontanava colui che ne veniva colpito per diverse ragioni e modi dalla comunità ecclesiastica e l’ “excommunicatio maior”, solenne e dichiarata eliminazione del singolo o del gruppo dalla stessa comunità. Esigeva, pertanto, una puntuale serie di cerimonie che sottolineavano la gravità della decisione emanata.

Per quanto riguarda la posizione dantesca verso gli scomunicati, essa trovò la sua precisa collocazione in ciò che per il poeta rappresentava la propria idea di cristianesimo, quindi non teologia o complesso di norme giuridiche, ma interiorità ispirata dal Vangelo e vissuta in adesione alla tradizione più intima della spiritualità di ognuno.

@ ECCO DI QUA CHI NE DARÀ CONSIGLIO

Fontie: Enciclopedia dantesca, Treccani 1970