10^ canto dell’Inferno.
La prescienza dei dannati.
Nel sesto cerchio dell’Inferno, la città di Dite. Il poeta sente dire da Farinata degli Uberti: «Noi vediamo, come uno che ha cattiva vista, le cose che sono a venire; solo di tanto il sommo Signore ci concede tuttora la sua luce. Quando si avvicinano o sono presenti, il nostro intelletto è del tutto inutile; e se qualcun altro non ci informa, nulla conosciamo della condizione terrena degli uomini. Perciò puoi capire che la nostra conoscenza sarà totalmente spenta da quel momento in cui sarà serrata la porta che conduce al futuro».
La prescienza dei dannati fu trattata da Dante attribuendo loro la conoscenza del futuro, ma immaginando la stessa limitata. Infatti, essa veniva meno quando il fatto in questione era in procinto di passare dalla tipologia del futuro a quella del presente. A questa possibilità il poeta ne affiancava, a favore del dannato, un’altra, cioè una sorta di conoscenza indiretta, che prendeva spunto dalla comunicazione altrui o dalla sua memoria personale del passato.
Questa teoria fu applicata nei riguardi di quei personaggi che Dante chiamò a un qualunque rapporto con il futuro o il presente del mondo terreno o dell’Inferno, per esempio Ciacco e Brunetto Latini. Ma sarà con Farinata degli Uberti, con le parole sopra riportate, che la teoria della prescienza toccò il proprio apice.
Il poeta, per questa sua invenzione poetica, oltre a ispirarsi a Virgilio, a Stazio e a Lucano, tenne in particolare considerazione la filosofia a lui più vicina, nella quale spiccava in tutto il proprio fulgore la Summa Theologica di Tommaso d’Aquino, specialmente nei punti riguardanti la conoscenza, dove il grande filosofo sosteneva la possibilità di conoscere il futuro nel distacco dei sensi.
@ NULLA SAPEM DI VOSTRO STATO UMANO
Fonte: Enciclopedia dantesca, Treccani 1970