13^ canto dell’Inferno.
Pier della Vigna.
Nel secondo girone del settimo cerchio dell’Inferno. Pier della Vigna dice a Virgilio: «Io sono colui che tenne ambedue le chiavi del cuore di Federico II, e che le girò, chiudendo e aprendo, così delicatamente, che allontanai dalla sua confidenza quasi ognuno; nutrii fedeltà per l’alta carica, tanto che per questo persi il sonno e la vita».
Pier della Vigna, posto da Dante nel secondo girone di questo cerchio, nacque a Capua intorno al 1190 da un’umile famiglia, e nonostante ciò riuscì a compiere gli studi a Bologna. Appena trentenne, su raccomandazione dell’arcivescovo di Palermo, fu accolto presso la corte di Federico II con la duplice funzione di notaio e scrittore della cancelleria imperiale. Eletto nel 1225 a giudice della Magna Curia, nel 1247 fu insignito del prestigioso titolo di “imperialis aulae protonotarius et regni Siciliae logotheta“, vale a dire primo segretario e portavoce ufficiale dell’imperatore.
Nel frattempo, tra la redazione di un atto di governo e una missione diplomatica nei paesi stranieri, ovviamente intendendo con ciò anche gli stati piccoli e grandi disseminati nella penisola italica, si dilettò a poetare in volgare, svettando con il sonetto Amando con fin core, e a redigere un apprezzatissimo epistolario. Infine, nel febbraio 1249, mentre era in missione a Cremona, venne arrestato; ciò portò alla privazione di tutte le sue cariche.
Pier della Vigna si suicidò un paio di mesi dopo quella infausta giornata. Tra le versioni della sua tragica fine, che circolarono subito dopo, ne ricordiamo un paio, quanto al luogo e alle modalità: nella rocca di San Miniato, battendo la testa contro il muro della prigione, nella chiesa di San Paolo a Ripa d’Arno a Pisa, sfracellandosi la testa sulla parete esterna. Anche le cause che provocarono la sua caduta in disgrazia sono alquanto contraddittorie. Quella più accreditata ci riporta a una congiura di palazzo organizzata dai nobili della corte, invidiosi della vertiginosa ascesa ai vertici dell’amministrazione da parte dell’umile Pietro, tesi peraltro riportata dal poeta e accolta da quasi tutti i commentatori contemporanei della Commedia, nonché da qualche moderno.
@ IO SON COLUI CHE TENNI AMBO LE CHIAVI
Fonte: Enciclopedia dantesca, Treccani 1970