23^ canto dell’Inferno.
Gli ipocriti.
Nell’ottavo cerchio dell’Inferno. Malebolge. Sesta bolgia. Il poeta narra: “Laggiù incontrammo alcuni dannati colorati che camminavano in tondo con passi assai lenti, piangendo e sopraffatti dalla stanchezza per quanto traspariva dal volto. Essi avevano cappe con i copricapi abbassati davanti agli occhi, confezionate della stessa foggia di quelle che si confezionano a Cluny per i monaci. Di fuori sono dorate, così che la doratura abbacina; ma nell’interno tutte di piombo, e tanto pesanti, che quelle che Federico II faceva indossare sarebbero parse leggere come paglia”.
Gli ipocriti, collocati da Dante nella sesta bolgia di questo cerchio, subiscono una pena la cui tipologia, secondo il Sapegno, “è tra quelle elaborate con maggior sottigliezza di rapporti e di contrappassi e insieme con maggiore evidenza rappresentativa e sensibilità d’artista. Del resto, il contrasto tra la vistosa apparenza esteriore e la tormentosa realtà ha un evidente rapporto con la natura di un peccato, che consiste nel celare sotto una veste di virtù e di santità un’indole viziosa”.
Inoltre, la sgargiante cappa da monaco e l’avanzare nella bolgia a mo’ di processione religiosa di questi dannati, pongono in forte risalto la categoria di persone condannate dal poeta. Egli volle stigmatizzare l’ipocrisia perpetrata soprattutto dagli ordini religiosi, esaminando la stessa nel campo sociale e politico più che nella sfera della coscienza dei singoli.
E nel contesto di questa condanna senza se e senza ma, si colloca l’entrata in scena dei due frati bolognesi sopra citati, “che vuol essere inteso appunto come una satira contro gli intrighi politici del papato e della gente di chiesa”, sempre il Sapegno.
@ ELLI AVEAN CAPPE CON CAPPUCCI BASSI
Fonti: Enciclopedia dantesca, Treccani 1970
Inferno, Natalino Sapegno, La Nuova Italia Editrice 1968, 2^ edizione ricomposta