L’altr’è ‘l falso Sinon greco di Troia

30^ canto dell’Inferno.

Sinone.

Nell’ottavo cerchio dell’Inferno, Malebolge. Decima bolgia. Il poeta sente dire da Maestro Adamo: «Li incontrai qui – e da allora non si sono più mossi -, quando caddi in questo dirupo, e non credo che potranno muoversi per l’eternità. L’una è la disonesta che incolpò Giuseppe; l’altro è il greco Sinone impostore di Troia: emanano tanto fetore di unto arso a causa della febbre molto alta e violenta».

Figura della letteratura latina, Sinone, posto da Dante nella decima bolgia di questo cerchio tra i falsatori di parole, è un personaggio di un noto episodio dell‘Eneide (II 57-198), in cui la sua grande abilità di mentitore è lungamente descritta. Questi, lasciato sulla spiaggia di Troia dai suoi compagni d’arme, quando costoro fecero credere di rinunciare all’assedio della città che si protraeva da lungo tempo, si fece catturare dai nemici, inducendoli con una falsa scusa a far introdurre dentro le mura cittadine il famigerato cavallo di legno.

Nel leggere la concisa presentazione di costui, che avviene durante il colloquio tra Maestro Adamo e il poeta, fatta dal primo dietro precisa richiesta del secondo, non si può non rilevare un atteggiamento di aperta antipatia del dannato, e quindi di Dante, nei suoi confronti. Sentimento mostrato sia attraverso l’accento posto da Maestro Adamo sulla provenienza geografica di lui, col dire “il greco Sinone” (e qui è il caso di rammentare la nomea dei Greci quanto alla loro furbizia unita alla notevole capacità di mentire, evidenziata proprio da Virgilio nell’episodio sopra citato), sia attraverso l’epiteto di “falso” a significare “impostore”.

Infatti, re Priamo, avendolo accolto con molta benevolenza, fu preso da subitanea commozione alla vista delle finte lacrime di lui, e gli disse che avrebbe desiderato di poterlo considerare come uno dei Troiani. E da ciò si può facilmente arguire la gravità del peccato commesso dal nostro eroe.

@ L’ALTR’È ‘L FALSO SINON GRECO DI TROIA

Fonte: Enciclopedia dantesca, Treccani 1970

Ivi è Romena, là dov’io falsai

30^ canto dell’Inferno.

Maestro Adamo.

Nell’ottavo cerchio dell’Inferno, Malebolge. Decima bolgia. Maestro Adamo dice a Dante e Virgilio: «La spietata giustizia che mi punge con tormento trae motivo dal luogo dove io peccai per farmi emettere più sospiri. Lì si trova Romena, là dove io falsificai i fiorini che recavano impressa l’immagine del Battista; per cui io lasciai sulla terra il mio corpo arso. Ma se io vedessi qui l’anima malvagia di Guido o di Alessandro o del loro fratello, non scambierei gli occhi con l’acqua della Fonte Branda».

Maestro Adamo, collocato dal poeta nella decima bolgia di questo cerchio tra i falsari di monete, fu ritenuto di patria incerta dai primi commentatori della Commedia: se per Bambagliuoli era casentinese, per Benvenuto da Imola veniva da Brescia. Tuttavia, un rilevante contributo per individuare la sua origine fu la scoperta, ad opera del Tarlazzi nel 1869, di un atto rogato a Bologna il 28 Ottobre 1277, in cui veniva citato quale “magistro Adam de Anglia familiare comitum de Romena”. E un “Adam Anglicus” compariva in un altro documento del 1273.

Da ciò si è dedotto non esserci ragioni plausibili per mettere in dubbio se non la sua patria, almeno la provenienza dall’Inghilterra, come magister, qualifica che, per il Contini, indicava “un termine tecnico del mondo universitario, grado sinonimo di dottore”, relativa a una facoltà che “più che medica, ben probabilmente è ancora quella delle Artes, fra le quali vennero classificate le cosiddette scienze naturali”.

Raccontò l’Anonimo Fiorentino, a sostegno di quanto Maestro Adamo diceva ai due poeti: “Fu tirato in Casentino nel castello di Romena, al tempo che i conti di quello lato stavano male col comune di Firenze. Erono allora signori di Romena e d’attorno in quello paese tre fratelli: il conte Aghinolfo, il conte Guido e il conte Alessandro. Il maestro Adamo riduttosi con loro, costoro il missono in sul salto e feciongli battere fiorini sotto il conio del comune di Firenze, ch’erono buoni di peso, ma non di lega, però ch’egli erono di 21 carati dov’elli debbono essere di 24, sì che tre carati v’avea dentro di rame o d’altro metallo… Di questi fiorini e ne spesono assai: ora nel fine, venendo un dì il maestro Adamo a Firenze, spendendo di questi fiorini, furono conosciuti essere falsati; fu preso, e ivi fu arso”. Secondo la cronaca di Paolino Pieri, correva l’anno 1281.

@ IVI È ROMENA, LÀ DOV’IO FALSAI

Fonte: Enciclopedia dantesca, Treccani 1970