Ne l’ora che comincia i tristi lai

9^ canto del Purgatorio.

Il sogno di Dante.

Nell’Antipurgatorio. Dopo il secondo balzo, la valletta fiorita. Il poeta narra: “Nell’ora in cui la rondinella inizia le voci querule vicino alla mattina, forse in ricordo dei suoi primi lamenti, e in cui la mente umana, più distaccata dai vincoli corporei e meno occupata dai pensieri, è quasi divinatrice nei suoi sogni, avevo l’impressione di vedere in sogno un’aquila con le piume di colore aureo librata nel cielo, con le ali distese e intenta a scendere; e mi sembrava di essere là dove furono abbandonati i suoi compagni da Ganimede, quando fu trasportato fino al supremo concilio degli dèi.

“Dentro di me riflettevo: ‘Forse questa si dirige usualmente proprio qui, e forse ritiene non degno di sé il levare prede da altri luoghi’. Poi avevo l’impressione che, dopo aver roteato un poco, discendesse terribile come un fulmine, e mi trasportasse in alto fino alla sfera del fuoco. Lì sembrava che essa e io bruciassimo; e così la visione dell’ardore immaginato scottò, che avvenne che mi destassi.

“Non in modo diverso Achille si scosse, volgendo intorno gli occhi appena aperti e non sapendo là dove fosse, quando la madre togliendolo alle cure di Chirone lo portò via di nascosto dormiente sulle braccia a Sciro, da dove Ulisse e Diomede poi lo allontanarono; di quanto mi riscossi io, appena il sonno si dileguò dalla mia faccia, e impallidii, come fa colui che, impaurito, si sente gelare. Accanto a me c’era solo il mio conforto, e il sole era sorto già da più che due ore, e la mia vista era rivolta verso il tratto di mare“.

@ NE L’ORA CHE COMINCIA I TRISTI LAI

Fonte: Enciclopedia dantesca, Treccani 1970

Era già l’ora che volge il disio

8^ canto del Purgatorio.

(Canto VIII, dove si tratta de la quinta qualitade, cioè di coloro che, per timore di non perdere onore e signoria e offizi e massimalmente per non ritrarre le mani da lutilità de la pecunia, si tardaro a confessare di qui allultima ora di loro vita e non facendo penitenza di lor peccati; dove nomina iudice Nino e Currado marchese Malespini.)

Era già l’ora che volge il disio

ai navicanti e ‘ntenerisce il core

lo dì c’han detto ai dolci amici addio;

e che lo novo peregrin d’amore

punge, se ode squilla di lontano

che paia il giorno pianger che si more;

quand’io incominciai a render vano

l’udire e a mirare l’una de l’alme

surta, che l’ascoltar chiedea con mano.

Ella giunse e levò ambo le palme,

ficcando li occhi verso l’orïente,

come dicesse a Dio: ‘D’altro non calme’.

Te lucis ante‘ sì devotamente

le uscìo di bocca e con sì dolci note,

che fece me a me uscir di mente;

e l’altre poi dolcemente e devote

seguitar lei per tutto l’inno intero,

avendo li occhi a le superne rote.

Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,

ché ‘l velo è ora ben tanto sottile,

certo che ‘l trapassar dentro è leggero.

Io vidi quello essercito gentile

tacito poscia riguardare in sùe,

quasi aspettando, palido e umìle;

e vidi uscir de l’alto e scender giùe

due angeli con due spade affocate,

tronche e private de le punte sue.

Verdi come fogliette pur mo nate

erano in veste, che da verdi penne

percosse traean dietro e ventilate.

L’un poco sovra noi a star si venne,

e l’altro scese in l’opposita sponda,

sì che la gente in mezzo si contenne.

Ben discernëa in lor la testa bionda;

ma ne la faccia l’occhio si smarria,

come virtù ch’a troppo si confonda.

«Ambo vegnon del grembo di Maria»,

disse Sordello, «a guardia de la valle,

per lo serpente che verrà vie via».

Ond’io, che non sapeva per qual calle,

mi volsi intorno, e stretto m’accostai,

tutto gelato, a le fidate spalle.

E Sordello anco: «Or avvalliamo omai

tra le grandi ombre, e parleremo ad esse;

grazïoso fia lor vedervi assai».

Solo tre passi credo ch’i’ scendesse,

e fui di sotto, e vidi un che mirava

pur me, come conoscer mi volesse.

Temp’era già che l’aere s’annerava,

ma non sì che tra li occhi suoi e ‘ miei

non dichiarisse ciò che pria serrava.

Ver’ me si fece, e io ver’ lui mi fei:

giudice Nin gentil, quanto mi piacque

quando ti vidi non esser tra ‘ rei!

Nullo bel salutar tra noi si tacque;

poi dimandò: «Quant’è che tu venisti

a piè del monte per le lontane acque?».

«Oh!», diss’io lui, «per entro i luoghi tristi

venni stamane, e sono in prima vita,

ancor che l’altra, sì andando, acquisti».

E come fu la mia risposta udita,

Sordello ed elli in dietro si raccolse

come gente di sùbito smarrita.

L’uno a Virgilio e l’altro a un si volse

che sedea lì, gridando: «Sù, Corrado!

vieni a veder che Dio per grazia volse».

Poi, vòlto a me: «Per quel singular grado

che tu dei a colui che sì nasconde

lo suo primo perché, che non lì è guado,

quando sarai di là da le larghe onde,

dì a Giovanna mia che per me chiami

là dove a li ‘nnocenti si risponde.

Non credo che sua madre più m’ami,

poscia che trasmutò le bianche bende,

le quai convien che, misera!, ancor brami.

Per lei assai di lieve si comprende

quanto in femmina foco d’amor dura,

se l’occhio o ‘l tatto spesso non l’accende.

Non le farà sì bella bella sepultura

la vipera che Melanesi accampa,

com’avria fatto il gallo di Gallura».

Così dicea, segnato de la stampa,

nel suo aspetto, di quel dritto zelo

che misuratamente in core avvampa.

Li occhi miei ghiotti andavan pur al cielo,

pur là dove le stelle son più tarde,

sì come rota più presso a lo stelo.

E ‘l duca mio: «Figliuol, che là sù guarde?».

E io a lui: «A quelle tre facelle

di che ‘l polo di qua tutto quanto arde».

Ond’elli a me: «Le quattro chiare stelle

che vedevi staman, son di là basse,

e queste son salite ov’eran quelle».

Com’ei parlava, e Sordello a sé il trasse

dicendo: «Vedi là ‘l nostro avversaro»;

e drizzò il dito perché ‘n là guardasse.

Da quella parte onde non ha riparo

la picciola vallea, era una biscia,

forse qual diede ad Eva il cibo amaro.

Tra l’erba e ‘ fior venìa la mala striscia,

volgendo ad ora ad or la testa, e ‘l dosso

leccando come bestia che si liscia.

Io non vidi, e però dicer non posso,

come mosser li astor celestïali;

ma vidi bene e l’uno e l’altro mosso.

Sentendo fender l’aere a le verde ali,

fuggì ‘l serpente, e li angeli dier volta,

suso a le poste rivolando uguali.

L’ombra che s’era al giudice raccolta

quando chiamò, per tutto quello assalto

punto non fu da me guardare sciolta.

«Se la lucerna che ti mena in alto

truovi nel tuo arbitrio tanta cera

quant’è mestiere infino al sommo smalto»,

cominciò ella, «se novella vera

di Val di Magra o di parte vicina

sai, dillo a me, che già grande là era.

Fui chiamato Currado Malaspina;

non son l’antico, ma di lui discesi;

a’ miei portai l’amor che qui raffina».

«Oh!», diss’io lui, «per li vostri paesi

già mai non fui; ma dove si dimora

per tutta Europa ch’ei non sian palesi?

La fama che la vostra casa onora,

grida i segnori e grida la contrada,

sì che ne sa chi non vi fu ancora;

e io vi giuro, s’io di sopra vada,

che vostra gente onrata non si sfregia

del pregio de la borsa e de la spada.

Uso e natura sì la privilegia,

che, perché il capo reo il mondo torca,

sola va dritta e ‘l mal cammin dispregia».

Ed elli: «Or va; che ‘l sol non si ricorca

sette volte nel letto che ‘l Montone

con tutti e quattro i piè cuopre e inforca,

che cotesta cortese oppinïone

ti fia chiavata in mezzo della testa

con maggior chiovi che d’altrui sermone,

se corso di giudicio non s’arresta».

@ ERA GIÀ L’ORA CHE VOLGE IL DISIO

Fonte: La Commedia secondo l’antica vulgata, Giorgio Petrocchi, Edizione Nazionale 1966-67

Fui chiamato Currado Malaspina

8^ canto del Purgatorio.

Corrado Malaspina.

Nell’Antipurgatorio. Dopo il secondo balzo, la valletta fiorita. Il poeta sente dire da Corrado Malaspina: «Così la grazia illuminante che ti conduce verso il cielo possa trovare tanta cooperazione nel tuo libero arbitrio, quanta è necessaria per arrivare fino alla sommità del monte, se hai una conoscenza certa dei fatti della Lunigiana e delle zone vicine, dimmelo, poiché un tempo là fui potente. Fui chiamato Corrado Malaspina; non sono il Vecchio, ma derivai da lui; verso i miei parenti nutrii l’amore che si purifica qui».

Corrado Malaspina, posto da Dante nell’Antipurgatorio tra i principi negligenti, fu figlio di Federico I marchese di Villafranca e nipote di Corrado il Vecchio, capostipite della casata. Sulla biografia di questo personaggio ci sono giunte testimonianze non molto significative. Da qualche documento risulta che la sua vita fu votata prevalentemente alla cura degli interessi della sua famiglia e del suo territorio. Egli avrebbe liberato per due volte Sarzana dal giogo dei Pisani, e da ciò avrebbe avuto origine il suo rapporto con il suo avversario Nino Visconti (suo compagno di penitenza, poi, nella valletta fiorita dell’Antipurgatorio), nonché avrebbe partecipato alle lotte contro il vescovo di Luni. In base al testamento redatto da lui stesso il 28 settembre 1294, divise tra i fratelli e i congiunti le terre in Lunigiana e in Sardegna, che aveva posseduto in compartecipazione con loro.

Osservava il Donadoni che il poeta aveva foggiato uno degli uomini secondo il proprio cuore, prescindendo da qualsiasi rapporto personale che lo avesse potuto collegare ai Malaspina. “Il personaggio si stacca dai suoi compagni di pena proprio per la grande serenità e dignità di cui è circonfuso. In lui non troviamo nessuna inquietudine, nessuna impazienza per la pena cui è sottoposto: non implora preghiere, non mostra rimpianto per coloro che ha lasciato e anche di fronte ai turbamenti immediati, quali la venuta del serpente e la discesa degli angeli, egli resta imperturbabile, racchiuso nel suo mondo e assorbito nell’interesse più immediato che lo stimola il quel momento, cioè la presenza di Dante, un uomo vivo e toscano che gli potrà dare notizie di quel mondo cui apparteneva”, egli sosteneva.

Da parte sua, Dante non fece altro che innalzare a condizione eccelsa un tipico rappresentante del mondo cavalleresco, rimasto nel suo animo per tutta la sua vita da esule, come momento storico di pace e di giustizia. Così, nell’incontro con Corrado Malaspina, egli avvertì in maniera marcata il contrasto con gli anni che era costretto a vivere nel disordine sociale e politico della sua patria. A quest’epoca idealizzata, il poeta guardava con molto rimpianto, e ciò traspare qua e là, come si vedrà, nella seconda e nella terza cantica, in cui tale rimpianto raggiungerà la vetta per mezzo della figura del suo avo Cacciaguida.

@ FUI CHIAMATO CURRADO MALASPINA

Fonte: Enciclopedia dantesca, Treccani 1970