Sentendo fender l’aere a le verdi ali

8^ canto del Purgatorio.

Gli angeli e la mala striscia.

Nell’Antipurgatorio. Dopo il secondo balzo, la valletta fiorita. Dante narra: “Da quel lato in cui la valletta non ha protezione, c’era un serpente, forse come quello che procurò a Eva il frutto proibito. Il serpente malvagio strisciava tra la vegetazione bassa e folta e i fiori, piegando la testa di quando in quando, passandosi la lingua sul dorso come un animale che si lecca il pelo.

“Io non vidi, e perciò non lo posso raccontare, come partirono gli astori divini; ma vidi chiaramente sia l’uno sia l’altro quando erano in movimento. Sentendo tagliare l’aria dalle verdi ali, il serpente si allontanò in fretta, e gli angeli tornarono indietro, volando di nuovo con ritmo regolato e simultaneo su ai posti di guardia dove erano prima”.

Poco prima dell’incontro col giudice Nino Visconti, e subito dopo che i principi della valletta hanno continuato a cantare e terminare l’inno ambrosiano ‘Te lucis ante terminum’ iniziato da uno di essi, il poeta vede dapprima la folla silenziosa delle anime nobili che guardano verso l’alto, quasi in attesa, pallida e umile, e poi vede rendersi visibili in alto e scendere giù due angeli con due spade infuocate, tronche e prive delle loro estremità. Essi sono verdi nelle vesti come fogliette nate allora allora, che si tirano alle loro spalle urtate e mosse dal vento provocato dal battito di verdi ali. L’uno va a stare un poco più in alto di Dante, Virgilio e Sordello, e l’altro scende nel bordo opposto, così che gli spiriti sono contenuti nel mezzo. «Vengono entrambi dalla cavità della candida rosa a cui Maria presiede, a difesa dell’avvallamento, a causa del serpente che verrà ben presto», dice Sordello.

Così, espletato l’incontro col personaggio sopra citato, ecco la mala striscia, come il poeta definisce il serpente, fare la sua comparsa, e che Sordello indica a dito, svolgendosi in seguito la scena riportata in apertura. Bene. Gli angeli con la spada infuocata sono una chiara reminiscenza, tratta dalla Bibbia, del cherubino posto a guardia dell’Eden e rappresentano la raffigurazione dell’esilio dell’uomo, dal quale si può ritornare soltanto in virtù della redenzione. “Essi hanno infatti una funzione opposta al loro modello: il primo cherubino cacciò gli uomini dall’Eden perché non vi tornassero, i secondi cacciano il serpente perché gli uomini restino al sicuro nella valle fiorita” (Chiavacci Leonardi). E il serpente? Nient’altro che la tentazione diabolica sconfitta dalla grazia divina invocata dai penitenti della valletta fiorita, così che il nostro nemico di sempre, che nel Paradiso Terrestre riuscì a prevalere sull’umanità, adesso è cacciato dagli angeli alquanto facilmente. Soltanto con la loro presenza.

@ SENTENDO FENDER L’AERE A LE VERDI ALI

Fonti: Enciclopedia dantesca, Treccani 1970

Purgatorio, Anna Maria Chiavacci Leonardi, Mondadori 1994 e successive ristampe

Giudice Nin gentil, quanto mi piacque

8^ canto del Purgatorio.

Nino Visconti.

Nell’Antipurgatorio. Dopo il secondo balzo, la valletta fiorita. Il poeta narra: “Credo di essere sceso solo di tre passi, e mi trovai di sotto, e vidi uno che contemplava ancora me, come se mi volesse riconoscere. Era già l’ora in cui si faceva buio, ma non così che non rivelasse ciò che in precedenza teneva chiuso tra i suoi occhi e i miei. Si mosse verso di me, e io mi mossi verso di lui: nobile giudice Nino, quanto fui contento quando ti vidi che non eri tra i dannati!”.

Nino Visconti, collocato da Dante nell’Antipurgatorio tra i principi negligenti, nacque nel 1265 circa e morì nel 1296. Fu signore del giudicato di Gallura e cittadino pisano tra i più influenti, a capo della fazione guelfa. Associato al governo di Pisa da Ugolino della Gherardesca, suo nonno materno, ed entrambi assunto il titolo di “rettori e governatori del Comune”, nel 1286 riformò con costui Breve communitis Pisani e il Breve populi Pisani, per venire incontro alle necessità di un ristretto governo di tipo signorile, e ponendo limitazioni all’autonomia delle Arti maggiori.

Nulla è pervenuto circa i suoi rapporti con il conte Ugolino, ma è certo che egli fu colui che accusò presso la Santa Sede l’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini dell’eccidio che ebbe come protagonista la famiglia dei della Gherardesca (vedi Inferno XXXIII^ canto), dopo il quale, a causa della vittoria dei ghibellini pisani, dovette andarsene dalla città. Divenuto l’animatore della lega contro Pisa, rinsaldò i suoi rapporti con Firenze e fu in quel periodo che conobbe Dante.

Quando Pisa, nel luglio del 1293, aderì alla pace, egli non poté rientrare in città, visti i pericoli cui poteva incorrere, lui e la sua fazione. Ma qualche mese dopo, da Lucca, scrisse una missiva piena di risentimento ai Fiorentini, per raccomandarsi a essi sul rispetto dei patti fissati dal trattato di pace. Non avendo avuto riscontro, lasciò la Toscana riparando a Genova, che lo elesse come suo cittadino. Dalla città ligure si trasferì subito dopo nel giudicato di Gallura, dove ebbe contrasti con il suo vicario, il frate Gomita citato in Inferno nel XXII^ canto, che poi fece impiccare, e proseguì la sua battaglia contro Pisa fino a quando morì. Poco prima aveva espresso il desiderio che il suo cuore venisse portato nella guelfa Lucca, dove fu deposto nella chiesa dei frati minori di san Francesco.

@ GIUDICE NIN GENTIL, QUANTO MI PIACQUE

Fonte: Enciclopedia dantesca, Treccani 1970

Poscia che l’accoglienze oneste e liete

7^ canto del Purgatorio.

(Canto VII, dove si purga la qualitade di coloro che, per propria negligenza, di die in die di qui a lultimo giorno di loro vita tardaro indebitamente loro confessione; li quali si purgano in uno vallone intra fiori ed erbe; dove nomina il re Carlo e molti altri.)

Poscia che l’accoglienze oneste e liete

furo iterate tre e quattro volte,

Sordel si trasse, e disse: «Voi, chi siete?».

«Anzi che a questo monte fosser volte

l’anime degne di salire a Dio,

fur l’ossa mie per Ottavian sepolte.

Io son Virgilio; e per null’altro rio

lo ciel perdei che per non aver fé».

Così rispuose allora il duca mio.

Qual è colui che cosa innanzi sé

sùbita vede ond’e’ si maraviglia,

che crede e non, dicendo «Ella è… non è…»,

tal parve quelli; e poi chinò le ciglia,

e umilmente ritornò ver’ lui,

e abbracciol là ‘ve ‘l minor s’appiglia.

«O gloria di Latin», disse, «per cui

mostrò ciò che potea la lingua nostra,

o pregio etterno del loco ond’io fui,

qual merito o qual grazia mi ti mostra?

S’io son d’udir le tue parole degno,

dimmi se vien d’inferno, e di qual chiostra».

«Per tutt’i cerchi del dolente regno»,

rispuose lui, «son io di qua venuto;

virtù del ciel mi mosse, e con lei vegno.

Non per far, ma per non fare ho perduto

a veder l’alto Sol che tu disiri

e che fu tardi per me conosciuto.

Luogo è là giù non tristo di martìri,

ma di tenebre solo, ove i lamenti

non suonan come guai, ma son sospiri.

Quivi sto io coi pargoli innocenti

dai denti morsi de la morte avante

che fosser da l’umana colpa essenti;

quivi sto io con quei che le tre sante

virtù non si vestiro, e sanza vizio

conobber l’altre e seguir tutte quante.

Ma se tu sai e puoi, alcuno indizio

dà noi per che venir possiam più tosto

là dove purgatorio ha dritto inizio».

Rispuose: «Loco certo non c’è posto;

licito m’è andar suso e intorno;

per quanto ir posso, a guida mi t’accosto.

Ma vedi già come dichina il giorno,

e andar sù di notte non si puote;

però è buon pensar di bel soggiorno.

Anime sono a destra qua remote;

se mi consenti, io ti merrò ad esse,

e non sanza diletto ti fier note».

«Com’è ciò?», fu risposto. «Chi volesse

salir di notte, fora elli impedito

d’altrui, o non sarria ché non potesse?».

E ‘l buon Sordello in terra fregò il dito,

dicendo: «Vedi? sola questa riga

non varcheresti dopo ‘l sol partito:

non però ch’altra cosa desse briga,

che la notturna tenebra, ad ir suso;

quella col nonpoder la voglia intriga.

Ben si poria con lei tornare in giuso

e passeggiar la costa intorno errando,

mentre che l’orizzonte il dì tien chiuso».

Allora il mio segnor, quasi ammirando,

«Menane», disse, «dunque là ‘ve dici

ch’aver si può diletto dimorando».

Poco allungati c’eravam di lici,

quand’io m’accorsi che ‘l monte era scemo,

a guisa che i vallon li sceman quici.

«Colà», disse quell’ombra, «n’anderemo

dove la costa face di sé grembo;

e là il novo giorno attenderemo».

Tra erto e piano era un sentiero sghembo,

che ne condusse in fianco de la lacca,

là dove più ch’a mezzo muove il lembo.

Oro e argento fine, cocco e biacca,

indaco, legno lucido e sereno,

fresco smeraldo in l’ora che si fiacca,

da l’erba e da li fior, dentr’ a quel seno

posti, ciascun saria di color vinto,

come dal suo maggiore è vinto il meno.

Non avea pur natura ivi dipinto,

ma di soavità di mille odori

vi facea uno incognito e indistinto.

Salve, Regina‘ in sul verde e ‘n su’ fiori

quindi seder cantando anime vidi,

che per la valle non parean di fuori.

«Prima che ‘l poco sole omai s’annidi»,

cominciò ‘l Mantoan che ci avea vòlti,

«tra color non vogliate ch’io vi guidi.

Di questo balzo meglio li atti e ‘ volti

conoscerete voi di tutti quanti,

che ne la lama giù tra essi accolti.

Colui che più siede alto e fa sembianti

d’aver negletto ciò che far dovea,

e che non move bocca a li altrui canti,

Rodolfo imperador fu, che potea

sanar le piaghe c’hanno Italia morta,

sì che tardi per altri si ricrea.

L’altro che ne la vista lui conforta,

resse la terra dove l’acqua nasce

che Molta in Albia, e Albia in mar ne porta:

Ottacchero ebbe nome, e ne le fasce

fu meglio assai che Vincislao suo figlio

barbuto, cui lussuria e ozio pasce.

E quel nasetto che stretto a consiglio

par con colui c’ha sì benigno aspetto,

morì fuggendo e disfiorando il giglio:

guardate là come si batte il petto!

L’altro vedete c’ha fatto a la guancia

de la sua palma, sospirando, letto.

Padre e suocero son del mal di Francia:

sanno la vita sua viziata e lorda,

e quindi viene il duol che sì li lancia.

Quel che par sì membruto e che s’accorda,

cantando, con colui dal maschio naso,

d’ogne valor portò cinta la corda;

e se re dopo lui fosse rimaso

lo giovanetto che retro a lui siede,

ben andava il valor di vaso in vaso,

che non si puote dir de l’altre rede;

Iacomo e Federigo hanno i reami;

del retaggio miglior nessun possiede.

Rade volte risurge per li rami

l’umana probitate; e questo vole

quei che la dà, perché da lui si chiami.

Anche al nasuto vanno mie parole

non men ch’a l’altro, Pier, che con lui canta,

onde Puglia e Proenza già si dole.

Tant’è del seme suo minor la pianta,

quanto, più che Beatrice e Margherita,

Costanza di marito ancor si vanta.

Vedete il re de la semplice vita

seder là solo, Arrigo d’Inghilterra:

questi ha ne’ rami suoi miglior uscita.

Quel che più basso tra costor s’atterra,

guardando in suso, è Guiglielmo marchese,

per cui e Alessandria e la sua guerra

fa pianger Monferrato e Canavese.

@ POSCIA CHE L’ACCOGLIENZE ONESTE E LIETE

Fonte: La Commedia secondo l’antica vulgata, Giorgio Petrocchi, Edizione Nazionale 1966-67