26^ canto dell’Inferno.
Una questione aperta.
Nell’ottavo cerchio dell’Inferno, Malebolge. Ottava bolgia. Virgilio dice a Dante: «Là dentro sono tormentati Ulisse e Diomede, e così vanno insieme al castigo come andarono contro lo sdegno di Dio; e all’interno della loro fiamma piangono lamentosamente l’insidia del cavallo che aprì la porta da cui uscì il nobile progenitore dei Romani. Dentro vi si sconta l’astuzia a causa della quale, da morta, Deidamia si duole tuttora di Achille, e vi si sconta il furto del Palladio».
Figura del mito classico, Ulisse, posto dal poeta nell’ottava bolgia di questo cerchio tra i consiglieri fraudolenti con Diomede, ha dato lo spunto riguardo a una questione sorta già a partire dai primi commentatori della Commedia, che rimane tuttora aperta. Questa. L’eroe greco è da considerarsi reo perché ha osato sfidare i limiti imposti da Dio agli uomini, e quindi la sua fine rappresenta una sorta di castigo, oppure, è da riconoscere in lui un eroe dell’ardimento votato alla sete di conoscenza, che non poté raggiungere in quanto pagano, dunque in aperta sfida con la divinità?
Su questo dilemma, come detto sopra, si divisero già gli antichi commentatori, a partire dal Buti e da Benvenuto da Imola. Ugualmente, però, si dividono i moderni, come il Nardi e il Fubini. Il primo vede in Ulisse la superbia dell’uomo “che vuole raggiungere con le sue sole forze le ultime realtà”, paragonandolo addirittura ad Adamo, il primo peccatore; per il secondo, nel comportamento di Ulisse non vi fu alcuna colpa, ma soltanto una grandezza per niente fortunata. Colpevolisti e innocentisti, dunque. Due schieramenti destinati a restare tali ancora per molto tempo.
@ A LA VENDETTA VANNO COME A L’IRA
Fonte: Enciclopedia dantesca, Treccani 1970